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Dino Risi, maestro di farsa e tragedia in nome del cinema italiano
Il Billy Wilder del cinema italiano. Questa è forse la definizione più calzante per dare l'idea della maestria artistica di Dino Risi (23 dicembre 1916 – 7 giugno 2008), regista e sceneggiatore milanese considerato uno dei massimi esponenti della commedia italiana, accanto a Mario Monicelli ed Ettore Scola. Comicità, quindi, ma anche uno sguardo profondamente malinconico e disilluso, sempre aderente a storie costruite in maniera impeccabile, grazie anche a sceneggiatori e attori indimenticabili. Dino Risi è classe, eleganza, umorismo, amarezza senso del ritmo e molto altro ancora: pochi altri hanno saputo restituire come lui sullo schermo gli impulsi di una società in continuo cambiamento, in particolare negli anni '60, fotografando la realtà, individuale e collettiva, in tutte le sue sfumature.

«I critici vorrebbero che noi facessimo i film che loro farebbero se fossero capaci di farli» (intervista al Tg1, 7 giugno 2008)


Risi inizia la carriera nel cinema come assistente di Alberto Lattuada e Mario Soldati. Dopo alcuni corti ed esperienze da critico, esordisce nel lungometraggio con Vacanze col gangster (1952) cui segue Pane, amore e... (1955), interpretato da Vittorio De Sica e Sophia Loren, che gli regala la notorietà. Negli anni lavora con attori quali Alberto Sordi, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, realizzando opere che segnano profondamente l'immaginario nazionale: indimenticabili Una vita difficile (1961) e Il sorpasso (1962), manifesto di una società ormai preda di un benessere inarrestabile e sferzante che non permette alcun rallentamento, capolavoro illuminato dalle interpretazioni di Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant. Con I mostri (1963) dipinge una inimitabile galleria di personaggi e vicende, per quello che a pieno diritto può essere considerato il prototipo dei film a episodi.

Dopo Straziami, ma di baci saziami (1968), folcloristica parodia sulle derive dell'immaginario popolare da fotoromanzo, dirige Profumo di donna (1974, che nel 1992 è oggetto del remake Scent of a Woman – Profumo di donna, con protagonisti Al Pacino e Chris O'Donnell) e I nuovi mostri (1977), aggiornamento in chiave cupa e amara del film del 1963, che vede alla regia anche Scola e Monicelli. Tra le sue opere migliori degli anni Ottanta, si segnalano Sono fotogenico (1980) con Renato Pozzetto e Il commissario Lo Gatto (1986) con Lino Banfi. Nel 2002 riceve il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia.

Ecco la nostra classifica dei dieci migliori film di Dino Risi:

10) I NUOVI MOSTRI (1977)


Nove episodi (la versione integrale di 115 minuti ne contava cinque in più: Sequestro di persona cara, Mammina e mammone, Cittadino esemplare, Pornodiva e Il sospetto), diretti da Mario Monicelli, Dino Risi ed Ettore Scola, che hanno come filo conduttore le meschinità dell'italiano medio. Amaro, tagliente e segnato dall'atmosfera opprimente dei cosiddetti anni di piombo, il film è meno incisivo rispetto al predecessore I mostri (1963), diretto dal solo Risi nello scandagliare satiricamente i molti vizi nazionali, ma dimostra una propensione per il grottesco e un'ironia aggressiva che ne costituiscono al tempo i limiti e la forza: si passa dai vertici di demenzialità volgare e assoluta del memorabile Hostaria!, con Gassman e Tognazzi che mettono a soqquadro la cucina di un ristorante a causa dei loro litigi, a segmenti tranchant (Senza parole), da momenti irresistibilmente esilaranti (First Aid, con un Sordi in stato di grazia nell'incarnare il debosciato Giovan Maria Catalan Belmonte, “cavalier preposto al Soglio Pontificio”) a un senso di disturbante desolazione (Come una regina). Comicità e indignazione, risate e malinconia: un'opera squilibrata e altalenante che, a suo modo, colpisce nel segno. Da rilevare l'ultimo episodio, L'elogio funebre, che segna il tramonto definitivo del gioioso e spensierato avanspettacolo. Sceneggiatura di Age, Scarpelli, Ruggero Maccari e Bernardino Zapponi; musiche di Armando Trovajoli, fotografia di Tonino Delli Colli.

9) PROFUMO DI DONNA (1974)


Tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino, Profumo di donna è un solido e stratificato racconto che deve gran parte della propria luce all'incredibile prova di Vittorio Gassman, Premio per la miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes. Impossibile non restare abbagliati dal suo Fausto Consolo, personaggio contenitore unico nel suo genere, in grado di alternare stati iracondi e irrazionali a momenti di estrema dignità e fermezza. Un uomo che, suo malgrado, guiderà nella crescita il giovane e inesperto accompagnatore, dando vita a un percorso di formazione che toccherà diverse città italiane, tutte caratterizzate al massimo dalla fotografia Claudio Cirillo, luoghi in cui affrontare prove e situazioni diverse. Fino ad arrivare a Napoli, città in cui la vista è superflua, dove il tatto e l'olfatto vengono esaltati da stimoli carnali unici. Risi, dopo una prima parte retorica e altalenante, sfoggia nel capoluogo partenopeo tutta la sua abilità nel fotografare la complessità dei rapporti umani, indefinibili e sfuggevoli come i vestiti trasparenti di una innocente spasimante. La pellicola ha ricevuto due nomination agli Oscar 1976, una per il miglior film straniero e una per la migliore sceneggiatura non originale. Nel 1992 Martin Brest ne ha realizzato un remake Scent of a Woman – Profumo di donna, con protagonisti Al Pacino e Chris O'Donnell.

8) OPERAZIONE SAN GENNARO (1966)



Irresistibile parodia dei caper-movie tanto in voga in quel periodo, firmata da Dino Risi e ambientata nelle folkloristiche vie di Napoli. A otto anni di distanza del ben più riuscito I soliti ignoti (1958) di Monicelli, il regista milanese dirige una “commedia con scasso” affidandosi a due campioni della comicità come Totò e Nino Manfredi (indimenticabile il suo Dudù). L'aspetto più riuscito è la caratterizzazione, in chiave parodistica, dei personaggi che abitano gli stretti vicoli partenopei: un andirivieni di curiosi individui e un vociare indistinto che contrasta (anche piuttosto banalmente) con l'atteggiamento compito, professionale e super organizzato degli americani. Una pellicola nata da una sceneggiatura degli stessi Risi e Manfredi con Ennio De Concini e Adriano Baracco, che punta dritta alla risata senza troppe pretese. La colonna sonora di Armando Trovajoli è arricchita con canzoni di Iva Zanicchi, Peppino Di Capri e Giorgio Gaber. Magnifica la sgargiante fotografia di Aldo Tonti. Un intrattenimento davvero delizioso.

7) L'OMBRELLONE (1965)


Commedia grottesca firmata Dino Risi, L'ombrellone è più precisamente una fotografia satura e sovraesposta dell'Italia del boom. Il regista cerca di vedere attraverso i colorati occhiali del protagonista – un malinconico, irrequieto e bravissimo Enrico Maria Salerno – tutta l'inquietudine nascosta dietro la patina godereccia di una società impreparata ad affrontare così tanta abbondanza. Attraverso inquadrature iper-colorate e stracolme di soggetti, il regista imbocca un altro tipo di commedia (per lui inedito), caciarona e disturbante, in grado di sfociare nella solita malinconia ma grazie a situazione diverse. Una comicità frutto dell'abbondanza e della confusione, accompagnata da una colonna sonora volutamente popolare. La borghesia smascherata e ridicolizzata al meglio, nonostante alla lunga il ritmo scemi e l'intreccio amoroso diventi stucchevole.

6) IL SEGNO DI VENERE (1955)



Presentata in concorso all'ottavo Festival di Cannes, un'amara commedia dal cast stellare (oltre alle protagoniste, Franca Valeri e Sophia Loren, ci sono anche Vittorio De Sica, Peppino De Filippo e un memorabile Alberto Sordi), capace di rappresentare al meglio un paese in costruzione, morale ed economica, proiettato verso il boom. Risi affida alla Valeri, qui al suo meglio, il ruolo chiave di una donna costretta dalle sovrastrutture sociali a cercar marito in ogni occasione, contrapponendole un personaggio femminile (quasi) emancipato decisamente insolito rispetto al modello femminile standardizzato di certe pellicole italiane del periodo (un'abbagliante Loren, persino molestata sul tram). Una nazione di contraddizioni mostrata con garbo dal regista, sicuramente limitato dagli scopi pubblicitari della Titanus, che comunque mostra un'acerba propensione all'introspezione e alla coraggiosa analisi sociale. Cesare Zavattini, uno dei padri del Neorealismo, ha collaborato alla sceneggiatura scritta da Risi, Franca Valeri, Ennio Flaiano e Edoardo Anton. Ritmo perfetto e almeno un pugno di battute passate agli annali, tra cui il mitico «Ordinario!» di Franca Valeri al rozzo e maleducato di turno.

5) ANIMA PERSA (1977)



Risi non aveva mai provato prima d'ora a maneggiare horror e thriller, generi che sembravano non essere nelle corde di un esperto artista della commedia all'italiana. Eppure, anche grazie alla straordinaria fotografia di Tonino Delli Colli, il regista regala un originale adattamento dell'angosciante romanzo omonimo di Giovanni Arpino, capace di mutare nel corso dei minuti. Se inizialmente il focus è sullo scontro culturale-generazionale (la borghesia religiosa e austera si scontra con i giovani artisti, capelloni e libertini), repentinamente lo spettatore viene catapultato in una misteriosa vicenda familiare. Patologie mentali e pedofilia sono solo due delle importanti (e coraggiose) tematiche che emergono violentemente. In tutto questo, spicca la grande prova di Gassman: attore capace di far crescere la pellicola in simbiosi con il suo personaggio, severo e rigido dallo sguardo di ghiaccio che potrebbe però celare tremendi segreti. Un'interpretazione sopra le righe e supportata da una Catherine Deneuve decadente ma comunque bellissima. Il terzo soggetto forte è Venezia («Una vecchia signora dall'alito cattivo»), lontana anni luce dalla soleggiata città che Risi immortalò a inizio carriera in Venezia, la luna e tu (1958). Un luogo fortemente simbolico che, così come la villa della famiglia, nasconde segreti e misteri dietro la fitta coltre della nebbia che l'avvolge. Imperdibile.

4) IN NOME DEL POPOLO ITALIANO (1971)



Age & Scarpelli scrivono per Dino Risi una sceneggiatura di prim'ordine, capace attraverso l'ormai sottilissimo velo della commedia di fotografare al meglio un paese alle prese con un degrado morale inarrestabile. Gli autori sono tra i primi a capire che la forbice ideologica che ha sempre contrapposto le guardie ai ladri si stava gradatamente chiudendo; Tognazzi e Gassman, per l'ennesima volta insieme, prestano il volto a due personaggi simbolo di un paese ormai economicamente agiato, ma sprofondato nei meandri dell'inquinamento non solo morale (gran parte delle scene hanno come fondali dei paesaggi contaminati e desolanti). Il messaggio è forte e chiaro: anche l'integerrimo uomo di principio è costretto a piegarsi per raggiungere i propri obiettivi, persino gli uomini di legge ne sono coinvolti. Una lettura visionaria, grottesca e per certi versi profetica, quadro di un'abiezione inarrestabile e destinata a diventare consuetudine. Una commedia amarissima, tra le più toccanti del periodo, interpretata alla grande e con dialoghi magistrali. Da vedere e rivedere.

3) I MOSTRI (1963)



Inimitabile galleria di personaggi in venti brevi episodi, per quello che a pieno diritto può essere considerato il prototipo dei film a episodi. Pur rispettando la sua natura spezzata e frammentaria, la pellicola gode di un'unitarietà d'indenti difficile da riscontrare in operazioni simili. Il regista e gli sceneggiatori (Agenore Incrocci, Ruggero Maccari, Elio Petri, Furio Scarpelli, Ettore Scola e lo stesso Risi) fissano sullo schermo tutte le sfumature di un boom economico che inevitabilmente genera dei mostri, uomini e donne che cercano di restare aggrappati al progresso, che sopravvivono nella giungla urbana sfruttandone furbescamente ogni zona d'ombra. Dall'infanzia traviata in L'educazione sentimentale, sino al tristissimo viale del tramonto de La nobile arte, questo film di Risi prende magicamente la forma di una grottesca parabola e di una commedia dolceamara difficile da dimenticare. Qui al loro meglio, Gassman e Tognazzi si dimostrano inimitabili camaleonti da farsa, volti che si modellano e divertono nonostante i loro personaggi compiano in fondo gesti negativi. Famiglia, cultura, sport, sessualità, religione e giustizia, tutti temi che trovano spazio in quello che può essere giustamente considerato uno dei più esaustivi quadri della società dell'epoca. Nonostante siano dotati tutti di incredibile dignità, i migliori spezzoni restano Testimone volontario, in cui uno strabordante Gassman distrugge il precisino Tognazzi, e proprio La nobile arte, che può vantare uno dei finali più emozionanti dell'intera commedia all'italiana. Seguito da I nuovi mostri (1977), diretto oltre che dallo stesso Risi, anche da Scola e Monicelli, e da un tardivo quanto indecoroso I mostri oggi (2009) di Enrico Oldoini.

2) UNA VITA DIFFICILE (1961)



Dino Risi racconta l'Italia dall'8 settembre '43 fino al boom economico, e lo fa lasciandosi (quasi) completamente alle spalle la commedia per gettarsi nelle fauci di un dramma malinconico senza precedenti. Silvio (Alberto Sordi) ed Elena (Lea Massari) sono due straordinari archetipi di un paese che con gli anni scompare nella nebbia del progresso, dimenticato dalle abbaglianti luci dell'opulenza ritrovata. Personaggi dalla dignità unica, che per loro natura, sono inevitabilmente costretti a fare la scelta più giusta (che però nella realtà equivale alla più dolorosa). Il merito va a una delle sceneggiature più intense del cinema italiano del dopoguerra, scritta da Rodolfo Sonego. Oltre a una Lea Massari asciutta e chirurgica nel calarsi in parte, è impossibile dimenticare uno dei personaggi a cui lo stesso Sordi era più affezionato: il suo Magnozzi spiazza fin da subito il pubblico, abituato a vedere l'attore sempre nei panni dell'egoista disposto al sotterfugio. Qui invece, a parte qualche tentennamento intrinseco e qualche sciagura involontaria, Sordi reagisce coraggiosamente d'istinto preferendo muoversi entro i limiti della sua coscienza. In questo senso, è indimenticabile la sequenza in cui l'attore romano sputa ubriaco e deluso sulle auto che passano nell'alba di Viareggio o l'esilarante cena dai nobili durante la proclamazione della Repubblica (galleria straordinaria di nostalgici mostri opportunisti). Il messaggio è forte e chiaro: in una società dove scompaiono gli ideali e contano solo gli obiettivi, è necessario scendere a compromessi. O forse no? Breve cameo di Vittorio Gassman (non accreditato) nella parte di se stesso.

1) IL SORPASSO (1962)



Corre veloce senza sosta Bruno Cortona, simbolo di una società ormai preda di un benessere inarrestabile e sferzante che non permette alcun rallentamento. Mai nessuno come Dino Risi ne Il sorpasso è stato in grado di fotografare e scomporre un intero paese attraverso il gioco (ormai svelato) della commedia all'italiana. Un vero e proprio capolavoro costruito forsennatamente a strati: oltre alla più lampante critica sociale, in cui i ristoranti brulicanti e le spiagge che ballano al ritmo di Edoardo Vianello ne sono la più naturale rappresentazione, c'è una radicale e profonda analisi del boom economico. In un momento di opulenza assoluta, Risi riesce attraverso il difficile gioco del contrasto, a giostrare i suoi due personaggi principali affinché rappresentino al meglio il passato, il presente e il futuro della nazione. Il passato è Roberto (Jean-Louis Trintignant): studente che, seppur giovane, ha ereditato la propensione al sacrificio e all'abnegazione tipica della generazione dei suoi padri. Una generazione che ha attraversato la guerra, costretta a ricostruire e ad affermarsi attraverso il merito. Il presente è invece Bruno (Vittorio Gassman): ormai attempato sciupafemmine intento a vivere senza rimpianti una bella vita fatta di contraddizioni e problemi. Un esempio negativo, arricchito, senza valori ma dotato di faccia tosta e sempre abilissimo nell'arte di sapersi arrangiare. Mentre il futuro, amaro e incredibilmente difficile, aspetta infingardo entrambi i protagonisti dietro una curva stretta e pericolosa. Un agguato che stravolge lo spettatore e che rende ancor più straordinaria una pellicola in grado di prefigurare un avvenire amaro quanto la realtà. Risi grazie alla sua macchina da presa, compie una parabola in cui le varie tappe sono piene di volti (seppur belli come quello di Catherine Spaak) che tendono poi tutti a essere dimenticati, abbandonati rapidamente a 130 km/h. Oltre all'incredibile fotografia di Alfio Contini e alla calzante colonna sonora Riz Ortolani, è insuperabile la prova di Gassman, mai così spassoso nel dar vita a un fastidioso e superficiale gigione, generoso nel mostrare all'anonimo (per ruolo) Trintignant i piaceri della vita. Un personaggio delineato alla perfezione, a cui i soggettisti regalano una caratterizzazione non comune per le commedie dell'epoca. Oltre al lato comico di Bruno (il cui culmine è la storpiatura del nome del domestico dagli atteggiamenti femminili “Occhiofino”, in “Finocchio”), c'è infatti un insospettabile sottostrato più acuto che emerge a sprazzi, in dialoghi all'apparenza banali e rozzi, ma decisamente esemplificativi: «A Robe', che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l'età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c'ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta... si capisce».

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