Dario Argento, brivido e ossessione del dettaglio mancante
19/02/2022

«Sai, mi è successo un fatto strano, tanto strano che non so neanche se è vero. Quando entrai nella casa di quella donna, la prima volta, mi parve di vedere un quadro, ma dopo qualche minuto questo quadro non c'era più. Cosa può essermi successo?»


Il maestro del brivido
, colui che ha cambiato per sempre le sorti del cinema di genere in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta. Dario Argento, icona assoluta del giallo/horror nostrano, ha sempre attinto alle proprie ossessioni personali per fagocitare il pubblico in incubi senza fine: notoria la sua sinistra passione, mista a una sorta di timore reverenziale, nei confronti delle streghe (probabilmente, volendo fare psicologia spicciola, anche e soprattutto nei confronti della figura femminile), così come la tendenza di stampo Hawthorniano a radicare il Male nella vecchia Europa, un Male affrontato dalle leve del Nuovo Mondo (si pensi al Sam Dalmas de L'uccello dalle piume di cristallo, o alla Susy Banner di Suspiria).

Ma qual è la caratteristica inconfondibile del cinema argentiano? L'ossessione del dettaglio mancante, ça va sans dire; quell'indagine condotta dal/la protagonista, testardamente alla ricerca di una verità sfuggente proprio come quel particolare che potrebbe risolvere il mistero, che sviluppa l'iter narrativo costruendo situazioni sempre più tensive. E non è un caso, bensì un metodo: Argento ha usato l'escamotage nella maggior parte dei suoi film.


L'uccello dalle piume di cristallo (1970)


Il debutto ufficiale di Dario Argento dietro la macchina da presa è un thriller serrato e angosciante, intriso di violenza e contaminato da un umorismo beffardo che aumenta la tensione invece di stemperarla. Primo episodio della “Trilogia degli animali” (seguiranno Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, entrambi del 1971), ispirato al romanzo La statua che urla di Fredric Brown, il film gode di una sceneggiatura fluida e trascinante e di una tecnica sorprendente; e Sam Dalmas/Tony Musante, americano immersoo negli orrori romani ossessionato da un dettaglio che non riesce a ricordare e che potrebbe rappresentare la chiave per catturare il serial killer di turno, lascia il segno.


Profondo rosso (1975)


«Te lo dissi, no..? Ti dissi, fai la valigia e vattene. Perché... non mi hai dato retta, perché?!» Già, perché Marc Daly/David Hemmings, scomodo testimone di un brutale omicidio, non fugge dall'orrore? Perché il mistero è affascinante, è una sfida (solo che «oltre la sfida, ci puoi perdere anche la vita»), e poi c'è quel dettaglio che sfugge, il quadro, il quadro. Dario Argento contamina il thriller con l'horror soprannaturale e realizza uno dei suoi film migliori, teso, violento e realmente terrorizzante: la struttura narrativa procede a climax, aumentando di sequenza in sequenza il senso di angoscia e claustrofobia, e l'uso sapiente della macchina da presa (che adotta il punto di vista del protagonista) riesce a creare un'atmosfera straniante e ipnotica che, d'improvviso, precipita nell'incubo delirante di una mente malata.


Suspiria (1977)


Primo capitolo della Trilogia delle Madri, ispirata al Suspiria de Profundis di Thomas de Quincey e proseguita con Inferno (1980) e La terza madre (2007), Suspiria segna il passaggio di Dario Argento dal thriller all'horror puro. La struttura favolistica (una ragazza compie un processo di formazione e crescita affrontando il Male) è un pretesto per mettere in scena uno spiazzante e maestoso delirio visivo in cui l'immagine è inondata di colori saturi e dominata dal rosa degli ambienti e dal rosso del sangue. E poi c'è il particolare sfuggente, che in questo caso gioca sul sonoro: cosa significa e dove conduce la frase «Il segreto è: ho visto oltre la porta! I tre iris! Gira quello blu!»? Forse nell'antro della strega..?


Tenebre (1982)


Sangue a fiumi e atroce violenza: Dario Argento si sbizzarrisce in fantasiosi e impressionanti omicidi realizzando un thriller duro e puro, colmo di effetti speciali e di evoluzioni della macchina da presa. La vicenda dello scrittore Peter Neal/Anthony Franciosa, perseguitato da un serial killer e traumatizzato da un oscuro passato, è a tratti oscura e appesantita da troppi enigmi, ma la figura del giovane tuttofare Gianni/Christian Borromeo, testimone di uno tra i molti omicidi che formano una lunga scia di sangue bloccato nel suo ricordo dei reali accadimenti, funziona. Oltre a ricondurre al metodo argentiano.


Phenomena (1985)


Fiabesco e orrorifico iter di formazione con più di un rimando a Suspiria (1977), Phenomena conferma la tendenza di Dario Argento a indagare sugli orrori della vecchia Europa. Il tema è affascinante, alcuni momenti sono di grande impatto visivo (la strepitosa sequenza di apertura con l'omicidio di una studentessa interpretata da Fiore Argento, figlia del regista), la riflessione su diversità e solitudine riesce a evitare stereotipi e banalizzazioni; e poi c'è una splendida Jennifer Connelly, vero centro propulsore del film che vede l'assassino ben prima della tragica conclusione degli eventi. Ma non lo sa.


Trauma (1993)


L'adolescente Aura, problematica e anoressica, assiste all'omicidio dei genitori per mano di un feroce serial killer che decapita le sue vittime. Aiutata dal reporter David, cercherà di arrivare alla verità.  Prima collaborazione di Asia Argento con il padre Dario, che firma un thriller dalle derive psicologiche ed edipiche. Nulla di particolarmente rilevante (fastidiose le derive sociologiche), nonostante il soggetto dalle buone potenzialità, ma il tassello mancante per risolvere l'enigma c'è, e affascina: Aura potrebbe capire chi è l'assassino dopo 20 minuti, e così lo spettatore.


Nonhosonno (2001)


Un serial killer torna a colpire a Torino dopo diciassette anni di inattività. Giacomo Gallo, la cui madre era stata una delle vittime, cerca di scoprire il responsabile. Dario Argento torna alla purezza del genere thriller che l'ha reso celebre, ma i tempi sono cambiati: pur riconoscendo ancora qualche debole scintilla sotto la cenere (notevole la sequenza di apertura sul treno), il risultato è fiacco, la tecnica è stanca e svogliata, le idee di base ripetitive. Tutto sa di già visto e il particolare sfuggente, seppur presente (giocato sul piano sonoro e non visivo), convince poco.

 

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