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David Lynch: tutti i film dal più lineare al più assurdo

Uno dei pochi autori ad avere avuto il privilegio di diventare un aggettivo: lynchiano, ovvero anomalo, allucinato, straniante, perturbante. Regista, attore, sceneggiatore e produttore di successo, David Lynch è autore di opere originali ed enigmatiche, caratterizzate da uno stile innovativo inconfondibile e da scelte registiche uniche. Un percorso affascinante e ostico, perché Lynch ti trasporta in un altro mondo fatto di regole proprie; e se non si sta al gioco, meglio rinunciare. Entriamo nella poetica di Lynch attraverso una classifica molto particolare: un viaggio nei suoi film, dal più "normale" al più assurdo!


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The Elephant Man (1980)




Dalla vera e struggente vicenda di Jonathan Merrick, narrata dal professor Treves nei suoi appunti, David Lynch trae la sua seconda opera e, probabilmente, la più umana, fiabesca e pura della sua intera filmografia. La storia incredibile di Merrick è quella di un autentico mostro, marchiato da un destino perverso, che vuole solo essere accettato entro i confini di una società che, a ben vedere, è assai più mostruosa di lui. Impossibile non emozionarsi davanti al dramma di John e alle sue meravigliose, quotidiane, scoperte: l'arte, il teatro, il bacio di una bella dama. Lynch si contiene e regala una vicenda straziante che suscita il pianto più intimo e arcaico: quello dell'uomo per il proprio destino insensato, disperato di fronte al silenzio divino.

Dune (1984)




Tratto dal celebre romanzo omonimo di Frank Herbert, primo di una fortunata saga letteraria, Dune è un film di David Lynch decisamente diverso dai suoi progetti precedenti, prodotto da Dino De Laurentiis e accettato per poter realizzare altri lavori più personali, in primis il successivo Velluto blu (1986). La nota forza visionaria del regista si traduce qui in un blockbuster di fantascienza sui generis, contrassegnato da una trama confusa e complessa e da un apparato visivo kitsch e variopinto. Un film che funziona solo in alcuni momenti (notevole l'inizio cosmico che ricorda i lungometraggi precedenti del regista), ma si perde in un andamento prolisso, vittima di una narrazione macchinosa e di una evidente incapacità di coinvolgere il (grande) pubblico.

Duran Duran: Unstaged (2011)




David Lynch
non è nuovo a incursioni nel mondo musicale: basti pensare ai diversi album da lui stesso prodotti o ai video realizzati per Moby, Nine Inch Nails e Chris Isaak. In questo caso, lo stile surreale, le incursioni nell'assurdo e le sovrapposizioni oniriche tipiche del cinema lynchiano vengono mixate assieme alle immagini e alle note dei Duran Duran. Un esperimento gratuito e sostanzialmente innocuo, considerabile come un lungo videoclip con il quale il visionario autore tenta di disorientare i fan della band inglese e contemporaneamente di ingolosire i propri.

Una storia vera (1999)




Ispirato a fatti realmente accaduti, l'ottavo lungometraggio di David Lynch sembra rappresentare un netto cambio di stile rispetto alle visioni angoscianti dei suoi film precedenti. In realtà è vero soltanto in parte: seppur la storia sia perfettamente lineare e molti passaggi piuttosto tradizionali, diverse tematiche che il regista aveva portato avanti in passato sono ancora presenti. E anche Una storia vera porta con sé i germi di quel perturbante di stampo freudiano, che Lynch ha spesso rappresentato nelle sue opere: si pensi all'inizio, dove il semplice tonfo del protagonista è messo in scena come se si stesse assistendo a una tragedia imminente. Ma anche la natura circostante e l'incedere lent(issim)o della pellicola, che segue il passo del tosaerba del protagonista, hanno tratti ben poco convenzionali e, in un certo senso, inquietanti. È un Lynch che si reinventa, rimanendo fedele alla propria idea di cinema, firmando uno dei suoi lungometraggi più poetici, toccanti ed emozionanti in assoluto.

Cuore selvaggio (1990)




Non è affatto facile provare a etichettare Cuore selvaggio sotto un determinato genere: lo si potrebbe definire un road movie figlio del clima postmoderno, che mescola filoni diversi e riferimenti al passato della settima arte. Ma il film è anche l'unione tra il desiderio di libertà del cinema americano degli anni Settanta e quel senso di apparenza estetica superficiale (la giacca di pelle di serpente come status symbol del protagonista) tipico degli Ottanta: probabilmente è il modo migliore, per David Lynch, per inaugurare gli anni Novanta, un altro decennio che lo vedrà grande protagonista. Contestatissima Palma d'oro al Festival di Cannes: in molti gridarono allo scandalo, ma il presidente della giuria Bernardo Bertolucci non aveva dubbi sulla scelta.

Velluto blu (1986)




Dopo il disastro commerciale di Dune (1984), David Lynch torna a realizzare un lungometraggio personale, inquietante e ricco di tematiche scomode e coraggiose. È negli ambienti familiari, conosciuti e rassicuranti, che prende vita quel perturbante freudiano che Lynch ha spesso rappresentato in carriera. Sono orrori che si nascondono (il motivo ricorrente della tenda), si celano, ma che presto o tardi vengono a galla (l'orecchio in mezzo al prato). Velluto blu è un'opera esplosiva, che vive di guizzi importanti alternati a momenti più statici, totalmente incentrata sull'atto del vedere e sul piacere che questo può provocare. Fortemente voyeuristico, è anche un film dai contorni onirici, di indubbio fascino e di grande suggestione visiva e sonora.

Strade perdute (1997)




«Dick Laurent è morto»: si apre (e si chiude) con questa semplice frase uno dei film più affascinanti, ambigui e controversi di tutti gli anni Novanta. Un viaggio circolare negli abissi della mente umana, in cui l'inizio coincide con la fine e la cui ispirazione potrebbe essere il nastro di Möbius. Lynch aveva già lavorato sul tema della (doppia) identità – si pensi alla serie televisiva I segreti di Twin Peaks (1990-1991) – ma non era mai stato così esplicito e non aveva mai azzardato tanto. È una svolta spiazzante e cruciale nel cinema del regista, che lascia intravedere alcuni elementi che verranno ripresi nei due lungometraggi del nuovo millennio: Mulholland Drive (2001) e INLAND EMPIRE – L'impero della mente (2006).

Fuoco cammina con me (1992)/Twin Peaks (1990-1991-2017)




Prequel della serie televisiva che ha cambiato la storia del piccolo schermo: I segreti di Twin Peaks (1990-1991), una delle creazioni più importanti della carriera di David Lynch, che rivive sul grande schermo in un lungometraggio che racconta gli ultimi giorni di Laura Palmer prima di morire. L'indagine nel passato della protagonista rivela un animo inquieto, vittima del vizio e delle azioni torbide degli uomini che la circondano. Il regista prosegue la sua ricerca su quali misteri si annidino dietro le facciate delle grandi ville della provincia americana, infondendo alla alla pellicola un'atmosfera perturbante, angosciosa e capace di lasciare un segno profondo nella mente di chi guarda: un cortocircuito che troverà il suo culmine nella terza stagione di Twin Peaks (2017).

Mulholland Drive (2001)




Quello che inizialmente doveva essere il pilot di una nuova serie tv è diventato il più importante capolavoro che David Lynch abbia mai girato: Mulholland Drive era, nelle intenzioni, un nuovo progetto per il piccolo schermo. Lynch affronta per la prima volta il mondo di Hollywood, la Mecca del cinema, mostrandone inizialmente il lato più luminoso e trasognante e, in seguito, gli aspetti più torbidi, corrotti e marcescenti. Il cambio di prospettiva è affidato a due donne che sono sempre la stessa, due facce di un'unica medaglia: Betty, attrice in erba pronta a una grande carriera, e Diane, disillusa interprete di quart'ordine. Lynch gioca con il tema del “doppio”, scambiando identità e dimensioni parallele, azzardando una narrazione intricata ma mai macchinosa, e dando così vita a una delle storie più coinvolgenti e inquietanti dell'intera storia del cinema.

INLAND EMPIRE – L'impero della mente (2006)



Una donna (Laura Dern) in pericolo: è lo stesso David Lynch ad aver suggerito questa sinossi, forse l'unica possibile per un film da vivere più che da raccontare. Un'esperienza di visione unica, torrenziale, dove si annega consciamente negli abissi della mente umana. È un'opera di riflessi e di doppi, come lo erano Strade perdute (1997) e Mulholland Drive (2001): l'identità della protagonista è frammentata, totalmente decostruita. Ma INLAND EMPIRE – L'impero della mente è anche una maestosa riflessione su Hollywood come luogo simbolo di tale confusione identitaria: il primo vero esempio di «cinema dopo il cinema» (Roy Menarini).

Eraserhead – La mente che cancella (1977)



L'esordio di David Lynch è in assoluto una delle opere prime più analizzate, studiate e inquietanti dell'intera storia del cinema. È già una dichiarazione di una poetica pronta a maturare nei lungometraggi successivi: attraverso una scelta di atmosfere oniriche, industriali e surreali, Lynch crea un universo personale, difficilmente classificabile o inseribile in un determinato genere. Il percorso seguito dal protagonista è un incubo a occhi aperti, accompagnato da personaggi angosciosi e situazioni paranoiche; può essere letto come un film sull'“orrore della paternità”, simboleggiato da un figlio mostruoso, dalla testa simile a quella di un coniglio scuoiato, ma il significato ultimo risulta sempre ambiguo e sfuggente. Film diventato presto un cult nei circuiti underground, con un fan d'eccezione: Stanley Kubrick.

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