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Eyes Wide Shut: cosa rende l'ultimo Kubrick un film definitivo su sogni e desideri
Il 7 marzo 1999 il mondo della settima arte perdeva uno dei suoi più brillanti esponenti. La notizia della scomparsa di Stanley Kubrick fu una doccia fredda per tutti i cinefili, un amaro e brusco risveglio da un unico grande sogno condiviso iniziato nel 1953 con Paura e desiderio, e terminato a pochi giorni dalla fine del montaggio di Eyes Wide Shut. La morte del grande cineasta statunitense sembrò aleggiare in quello spazio etereo che separa il sonno dalla veglia, e a noi, spettatori attoniti, risultò molto facile immedesimarci nei panni del dott. William Harford (Tom Cruise), viandante solitario ed errante per le strade notturne di una New York che assume sempre più i tratti dell’incubo.



È proprio attorno ai concetti di sogno e desiderio che ruota l’ultima pellicola di Kubrick, opera figlia del romanzo Doppio sogno di Arthur Schnitzler. La vita apparentemente perfetta di un’agiata famiglia altoborghese viene improvvisamente stravolta quando Alice Harford (Nicole Kidman) confessa al marito di aver fantasticato di consumare un rapporto sessuale con un ufficiale di Marina. L’improvvisa rivelazione incrina le certezze coniugali del dott. Harford che intraprende un notturno e solitario viaggio, risospinto, alla deriva, da torbide e oniriche correnti. Kubrick utilizza alcuni stilemi formali permettendoci di scivolare lentamente in questo immaginario surreale: l’uso della steadicam (soluzione già adottata in Shining), che dona fluidità ai movimenti di camera, ci dà la sensazione di fluttuare come in un sogno; le dissolvenze fra una scena e l’altra richiamano confusione e commistione proprie dell’inconscio

Questa forte impronta psicanalitica ci viene ulteriormente suggerita dal modo quasi ossessivo in cui Kubrick fa ricorso al tema del doppio (anche in questo caso viene immediato pensare alle due inquietanti gemelline di Shining): molti dei personaggi che vengono presentati nell’arco della pellicola ci appaiono stranamente familiari e non è un caso che tutte e tre le donne (Mandy, Domino e Sally) che Hartford incontra abbiano i capelli rossi proprio come la moglie (soggetto scatenante della crisi). Il regista dissemina la pellicola di piccole e velate stranezze, in grado di suggerire soltanto una lieve dissonanza con la realtà senza però spezzare mai l’incantesimo: i rimandi all’arcobaleno (l’insegna luminosa e le enigmatiche frasi pronunciate dalle due modelle); le coppie (due modelle, due uomini dell’est Europa, i due guardiani al cancello) che strizzano l’occhio a un ciclico ripetersi

Simone Manciulli
Maximal Interjector
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