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Hollywood, Dreamland: la recensione della nuova serie Netflix di Ryan Murphy

Hollywood segna la seconda collaborazione di Ryan Murphy con Netflix, parte dell’accordo, lungo cinque anni, che ha legato l’autore di Glee e American Horror Story, re Mida del piccolo schermo contemporaneo, al colosso di streaming. Murphy, nuovamente affiancato da Ian Brennan come nella precedente The Politician, ha messo in piedi una miniserie che s’inoltra in maniera melliflua e patinata nella “Mecca del cinema” del secondo dopoguerra: un andirivieni di personaggi e situazioni tutti relativi all’ingresso nel mondo del cinema dalla porta principale (o dai cancelli dorati, se preferite) della fabbrica dei sogni californiana.



L’aderenza di Murphy al proprio universo espressivo è, come sempre, estremamente consapevole: l’ambientazione d’epoca si lascia tentare dall’eleganza della ricostruzione, ma finisce quasi sempre per scegliere la via della satira kitsch, della caricatura a metà strada tra esagerazione e candore (portando però con sé, in questo caso, una buona dose di approssimazioni ed esilità). In Feud, fiore all’occhiello della produzione del prolifico Murphy risalente al 2017, Susan Sarandon e Jessica Lange restituivano in modo impietoso e straziante la rivalità tra Bette Davis e Joan Crawford in Che fine ha fatto Baby Jane?, all’interno di una miniserie che assecondava e valorizzava il tenore vitalissimo, funereo e paradigmatico delle loro maschere e baruffe vampiresche.


Ma se Feud era una sorta di backstage esaltante e al vetriolo della vecchia Hollywood, ancorato a un dualismo divistico ben più lancinante di ogni stucchevole mitologia di superficie, il nuovo parto della creatività di Ryan Murphy, scegliendo la via di una coralità tenue e perbenista, finisce col perdere una buona dose di brillantezza. L’idea di raccontare la Golden Age col respiro più ampio possibile, senza scegliere un focus particolare, sconta paradossalmente la natura asfittica di una narrazione dal fiato corto, che non ha smalto a sufficienza per far risplendere la propria vena utopica tra una suggestione ondivaga, un ghirigoro umoristico e un monito all’autodeterminazione della propria diversità. Uno slancio in virtù del quale si suggeriscono i contorni di una Tinseltown hollywoodiana in cui l’apporto delle singole alterità, sessuali e razziali, possa spazzare via il cinismo e l’avidità di un tempo (tra i co-autori della serie anche Janet Mock, donna nera e trans al timone di Pose, altra creatura di Murphy per FX), ma senza far duellare davvero la fiaba e il dramma - e dunque anche, didascalicamente, il sogno e l’incubo - nel medesimo agone.


Un impeto di politicamente corretto che tenta di fare di Hollywood una Dreamland a tutti gli effetti, ma un po’ forzatamente, a misura di acceptance speech da stagione dei premi a beneficio delle minoranze, senza mai suggerire incrinature di sostanza oltre l’orlo polveroso, rassicurante ed ecumenico della retorica di circostanza e di comodo. Il furore apocrifo dell’Once Upon a Time di Tarantino è ovviamente un lontano ricordo (anche se Murphy gioca, a un certo punto, a simulare il medesimo tenore), ma, a conti fatti, non c’è granché traccia nemmeno della sorniona cattiveria di Ave, Cesare! dei Coen. Hollywood prova a giocarsi le loro stesse carte, puntando sulla fragilità di una raccolta di figurine tanto esili quanto vacue, ma graffia molto meno e si concede, nell’ultimo episodio, un rendez-vous da salotto buono che più annacquato e stucchevole non si può.



Certo, come sempre con Murphy, la queerness del prodotto è sapiente, studiata e non di rado affilata (il personaggio di Jim Parsons avrebbe meritato un cortorno ben più all’altezza) e l’idea di confezionare un’ampia storyline ispirata al vero Rock Hudson, sontuosa icona gay della Hollywood che fu, è decisamente notevole, ma il suo sviluppo si assesta poco oltre la strizzata d’occhio, come si vede nell’episodio dedicato alla festa a casa di George Cukor. Senza contare che tra gli attori più giovani e i più anziani (irresistibili Holland Taylor e Patti LuPone nei panni di Ellen Kincaid e Avis Amberg) c’è uno iato in termini di qualità e naturalezza della recitazione difficilmente colmabile, talmente marcato da togliere consistenza a qualsivoglia inno all’empowerment revisionista di cui Hollywood si fa scudo senza andare troppo per il sottile.


Davide Stanzione

Maximal Interjector
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