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Le migliori commedie italiane degli ultimi vent'anni
Dopo esserci chiesti: "Che ne è stato della commedia italiana negli anni '80 e '90?", gettiamo ora un ultimo sguardo anche alle commedie nostrane più significative degli ultimi vent'anni di cinema italiano, prendendo in considerazione quelli che a nostro avviso sono gli esempi del genere più paradigmatici e interessanti. Essendo vent'anni di grande bulimia e prolificità per il genere, è davvero difficile stabilire gerarchie interne, per cui in quest'occasione abbiamo optato, nel proporvi i venti titoli scelti, per un rigido ordine cronologico.

Chiedimi se sono felice (Massimo Venier, 2000)



Terzo tentativo per Aldo, Giovanni e Giacomo (con l'inseparabile Massimo Venier) sul grande schermo. La formula road movie è ormai consolidata, per non dire ripetitiva: a cambiare è solo il membro del gruppetto che si innamora della sempre presente Massironi. Come nelle altre pellicole, anche qui si tenta di nobilitare la semplice comicità fisica con un pizzico di cultura: in questo caso, è la rappresentazione teatrale del Cyrano de Bergerac che i tre amici vogliono allestire a fare da fil rouge alle vicende. Non c'è molto di nuovo sotto il sole ed è facile intuire l'happy ending in agguato, ma il film fu comunque un enorme successo di pubblico e la sceneggiatura è molto più raffinata rispetto alle precedenti comparsate del trio nelle sale.

Pane e tulipani (Silvio Soldini, 2000)



Delicata commedia diretta da Silvio Soldini, anche sceneggiatore con Doriana Leondeff. Toni leggeri e sommessi, uniti a uno stile sobrio e lineare, per tratteggiare temi importanti quali la solitudine e l'emarginazione della donna all'interno del nucleo familiare: il regista sceglie di basare lo sviluppo narrativo sulle vicissitudini della sua protagonista, assumendone totalmente il punto di vista e seguendone la crescita esistenziale ed emozionale, con uno spessore inaspettato e insolito per il cinema italiano contemporaneo. Cast in ottima forma: convincente Licia Maglietta, misurato Bruno Ganz (entrambi vincitori di un David di Donatello come migliori attori protagonisti). Giuseppe Battiston è Costantino Caponangeli. Fotografia di Luca Bigazzi.

Paz! (Renato De Maria, 2002)



Renato De Maria rende omaggio all'arte di Andrea Pazienza, fumettista italiano maledetto e di culto, scomparso prematuramente ma in grado di segnare di prepotenza l'immaginario del suo tempo e di lasciarvi un'impronta indelebile. Scritto da De Maria stesso con Ivan Cotroneo, Francesco Piccolo e Ivan Moffat, Paz! è un lungometraggio molto energico, girato con guizzi visivi netti e potenti. Predominano inquadrature spesso non banali, punti di vista spiazzanti e imprevedibili: scelte del tutto azzeccate per raccontare un periodo funambolico e colmo di stimoli, di fervore politico e artistico che ruotava attorno al cuore nevralgico di Bologna e del suo famoso DAMS, frequentato all'epoca dallo stesso Pazienza. 

Caterina va in città (Paolo Virzì, 2003)



Come nel precedente My Name is Tanino (2002), Paolo Virzì racconta i giovani alle prese con le grandi realtà, lasciando però intravedere la volontà di inquadrare un romanzo di formazione urbano all'alba degli anni Duemila. Il regista continua a giocare con le opposizioni politiche come nel precedente Ferie d'Agosto (1995), anche se il meccanismo è un po' troppo forzato e sa di già visto. Ma onestamente, sempre facendo la sponda tra commedia e ritratto sociale, Virzì racconta con originalità e buona scrittura (aiutato dal solito Francesco Bruni) come e quanto può essere difficile crescere in un ambiente estraneo e ostile, in perenne competizione (le "divette" della scuola) o emulazione (Caterina cerca un punto di riferimento impossibile perché inesistente) e con il costante timore di essere emarginati. 

Non pensarci (Gianni Zanasi, 2007)



Non pensarci è una commedia tragicomica i cui ingredienti sono elementari e tutt'altro che originali e memorabili, ma perfettamente funzionali allo scopo. La storia, in verità piuttosto tipica se non stereotipica nel parlare di rapporti familiari e ritorni, è resa accattivante dalla presenza di personaggi che conquistano e avvincono, definiti con cura e attenzione nelle loro sfaccettature ed evoluzioni. La solida sceneggiatura non manca poi di divertire con situazioni e battute intelligenti, trovando supporto in una colonna sonora azzeccata e nell'ulteriore valore aggiunto rappresentato dall'interpretazione del cast, nel quale spiccano Valerio Mastandrea nei panni del protagonista e Giuseppe Battiston, che regala momenti davvero spassosi.

Si può fare (Giulio Manfredonia, 2008)



Uno dei migliori esiti di Giulio Manfredonia, Si può fare riflette con delicatezza su un tema assai complicato come quello della celebre Legge Basaglia, che decretò la chiusura dei manicomi, e sui destini dei malati psichici, spesso lasciati soli dalla società invece di essere aiutati a reintegrarsi. Nel ruolo di Nello, Bisio, che dichiarò di aver visto e rivisto Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) per prepararsi alla parte, offre una delle sue performance più notevoli, facendo emergere un ritratto tenero e profondamente umano, capace di empatizzare in maniera autentica con i pazienti e sinceramente toccato e commosso dalla situazione. Ma anche nel gruppo dei malati si possono vedere ottime performance, come quelle di Carlo Giuseppe Gabardini (Goffredo), del veterano del palcoscenico Franco Pistoni (Ossi) e di Pietro Ragusa (l'ossessivo Fabio), oltre a Giuseppe Battiston nei panni del comprensivo Dottor Furlan.

Pranzo di ferragosto (Gianni Di Gregorio, 2008) 



Esordio alla regia per il cinquantanovenne Gianni Di Gregorio, sceneggiatore di fiducia di Matteo Garrone che produce il film. Una operina leggera e scanzonata, divertente che accumula gag più o meno riuscite, confezionate con una regia sobria e essenziale. Prodotto esile ma comunque godibile, in cui Di Gregorio si mette in gioco in prima persona con ironia, sa prendersi in giro e suscita simpatia, anche se la costruzione narrativa è abbastanza semplicistica e i personaggi si limitano a essere macchiette ilari.

Basilicata Coast to Coast (Rocco Papaleo, 2010)



Dopo una lunga carriera da attore, lanciata dal film di Pieraccioni I laureati (1996), Rocco Papaleo decide di mettersi dietro la macchina da presa per raccontare la propria regione e le proprie radici. È un road-movie all'italiana condotto con mano ferma e semplicità, oltre che una fotografia lucida e accurata di un luogo tanto caro al regista, quanto misconosciuto dai suoi connazionali. In fondo, è soprattutto una dichiarazione d'amore alla Basilicata, in cui però manca una vera e propria base narrativa atta a sorreggere l'intero impianto emozionale: i personaggi, però, sono ben caratterizzati.

Boris - Il film (Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo, 2011)



Reduce da tre stagioni di successo che ne hanno certificato lo status di opera cult, la serie televisiva Boris diventa un film. Una commedia nerissima, esilarante e caustica, quadro di un'epoca e di un'umanità assuefatte al brutto e al pressapochismo (il fare le cose “a cazzo di cane” è un mantra oltre che un modus operandi consolidato) in cui senso critico, dignità (personale e professionale) e competenza sono visti come vizi e non virtù. Brillante l'idea di usare l'arma del grottesco per descrivere personaggi fagocitati in un sistema culturale e sociale che valorizza la superficialità, la furbizia cialtrona e la grettezza d'animo. Pur ricalcando pedissequamente il prodotto televisivo di origine, Boris – Il film presenta una storia accattivante, focalizzandosi su un protagonista perdente che tenta con tutte le sue forze di riscattare la propria atavica mediocrità ma fallisce miseramente, sopraffatto da un ambiente avvezzo all'inettitudine e nemmeno lontanamente interessato a una possibilità di riscossa. Uno spiraglio di luce nel mare di volgarità (gratuita) della commedia popolare italiana del nuovo millennio

Scialla! (Francesco Bruni, 2011)



Frizzante film d'esordio da regista per Francesco Bruni, sceneggiatore già molto noto e fedele collaboratore di Paolo Virzì. La sua opera prima è tutta giocata sul rapporto padre-figlio tra Bruno e Luca, che si nutre delle personalità agli antipodi dei due personaggi e di uno scontro generazionale che sa arricchirsi di malinconie e profondità insperate, oscillando tra il saggio e il comico, tra la commedia di costume e la riflessione amarognola. 

La mafia uccide solo d'estate (Pif, 2013)



L'esordio di Pierfrancesco Diliberto (in arte Pif) è un lungometraggio sorprendente, sui cui in pochi avrebbero scommesso. Il noto conduttore televisivo, figlio del regista Maurizio Diliberto, riesce a mantenere, ne La mafia uccide solo d'estate, un invidiabile equilibrio tra grottesco e cronaca nera, ironia e tragedia. Diviso nettamente in due parti (l'infanzia e l'età adulta del personaggio), il film è un intenso racconto di formazione, ambientato in un mondo e in un periodo storico nel quale i fatti di sangue legati a Cosa nostra erano all'ordine del giorno.

Song'e Napule (Manetti bros, 2013)



Con Song ‘e Napule, i fratelli Manetti trovano il giusto mix tra la loro passione per il cinema di genere e un tono da commedia compatto e omogeneo, declinando entrambe le componenti in salsa partenopea. Dopo Piano 17 (2005) e la serie televisiva dedicata a L'ispettore Coliandro, torna la collaborazione con Giampaolo Morelli, qui autore del soggetto, in veste di interprete e tra gli sviluppatori della sceneggiatura. Il risultato è un'opera che alterna intelligentemente vari registri, con uno stile ironico solo a tratti eccessivamente sopra le righe. I personaggi sono ben descritti, con una chiave caricaturale non eccessiva e, soprattutto, Napoli si scopre una efficace co-protagonista, mostrando un lato più nascosto e meno turistico.

Zoran, il mio nipote scemo (Matteo Oleotto, 2013)



La storia richiama inevitabilmente quella di Rain Man – L'uomo della pioggia (1988), ma il regista la declina in salsa friulana, con evocazioni al mondo sloveno, regalando un'atmosfera malinconica e bonaria, ben lontana dalla patina del mondo hollywoodiano. Il protagonista Paolo, interpretato da un simpatico Giuseppe Battiston, è in grado di incantare per la sua consapevole crudeltà: tra bugie e sotterfugi, conditi da una buona dose di alcool e da un tocco disincantato che lo completano, si dimostra detestabile, eppure irresistibile. Dall'altra parte, si trova ad avere a che fare con un personaggio schivo e naif come Zoran, che, con qualche furbizia, lo obbligherà a cambiare punto di vista, con una presa di coscienza graduale e inevitabile.

Smetto quando voglio (Sidney Sibilia, 2014)



Prendendo le mosse dalla celebre serie televisiva americana Breaking Bad (lo spunto iniziale infatti è il medesimo) il giovane esordiente Sydney Sibilia cerca di calare il soggetto nell'Italia contemporanea, in cui i ricercatori universitari sono poco considerati e il loro futuro si prospetta tutt'altro che roseo. Smetto quando voglio è un film intelligente nel denunciare questa realtà con i toni della vecchia commedia che ha caratterizzato il cinema nostrano, mescolati a riferimenti più giovanili e di largo consumo di impianto americano (il montaggio serrato, la fotografia corretta in postproduzione). 

Perfetti sconosciuti (Paolo Genovese, 2016)



È piuttosto sorprendente vedere come Paolo Genovese – regista abituato a dirigere film a dir poco buonisti – sia riuscito a imprimere alla sua commedia agrodolce un tono cinico, fin cattivo a tratti, perlomeno nella prima parte. La messa alla berlina della superficialità con cui gli esseri umani utilizzano i propri smartphone come contenitori di segreti colpisce spesso nel segno, risultando credibile tanto nel soggetto di base quanto nelle (a volte anche divertenti) battute pronunciate dal gruppo di amici. Perfetti sconosciuti, titolo che funge da esplicito paradosso rispetto all’apparente natura dei commensali, descrive con discreta cura l’ipocrisia della società italiana, i rapporti amicali e quelli coniugali, trovando in un affiatato gruppo di attori il suo reale valore aggiunto.

L'ora legale (Ficarra e Picone, 2017)



Quinto film diretto dal duo comico Ficarra e Picone, L’ora legale è probabilmente il miglior risultato che abbiano mai firmato in carriera. Un prodotto godibile, capace di rappresentare senza troppi giri di parole un’Italia ingovernabile, in cui chi chiede il rispetto delle regole da parte degli altri possa continuare a fare i propri comodi. Su questo spunto il film poteva anche essere più graffiante e non perdersi in qualche ingenuità di troppo, ma la panoramica sul paesino siciliano è credibile e pone più di un interrogativo su quale Italia vorrebbero davvero i cittadini. La critica del film, seppur non sempre centrata fino in fondo, più che sulla classe politica è diretta alle persone comuni, non troppo diverse da quei politici con cui tanto se la prendono.

Easy - Un viaggio facile facile (Andrea Magnani, 2017)



L’esordio del regista riminese Andrea Magnani è un sorprendete e curioso road movie con un personaggio goffo e imbalsamato, una sorta di candido cartone animato costretto a intraprendere un viaggio verso un mondo a lui estraneo; una galassia aliena che sarà però in grado, attraverso mille peripezie, di concedergli una nuova e insperata forma di vitalità. Il materiale narrativo alla base del film è piuttosto incerto ed esiguo e nella seconda parte si indugia in più di qualche passaggio a vuoto, tra sequenze ridondanti e inserti meno ispirati, ma è ammirevole il modo in cui questo piccolo film italiano riesce raccontare il silenzio e la diversità, la solitudine e un’Europa dai confini sempre più labili e sbriciolati, ricreati attraverso una sorta di improbabile e buffo western dell’anima (il protagonista a un certo punto proseguirà con cavallo e cassa da morto alla Django al seguito).

L'ospite (Duccio Chiarini, 2018)



A quattro anni dal suo esordio Short Skin - I dolori del giovane Edo (2014), il regista fiorentino Duccio Chiarini torna al lungometraggio di finzione con un piccolo ma efficace film corale in bilico tra dramma e commedia, che cattura con ironia agrodolce ed estrema verosimiglianza gli inciampi e le contraddizioni della generazione a cavallo tra i trenta e i quarant’anni, alle prese con inutili master di specializzazione, saggi su Calvino, ennesimi concerti dei Pearl Jam e soprattutto con un precariato affettivo, sentimentale e lavorativo dal quale pare impossibile districarsi. La sceneggiatura, firmata da Chiarini con Roan Johnson, Davide Lantieri e Marco Pettenello, che solo nella seconda parte accusa qualche margine di ridondanza e ripetitività senza tuttavia mai girare del tutto a vuoto, esplora con acutezza spigliata, al contempo tenera e malinconica, personaggi spiaggiati e paralizzati, ai quali viene però concessa una costante e autoironica possibilità di redenzione attraverso la schietta lente di un’umanità mai retorica né di posa. 

Il grande salto (Giorgio Tirabassi, 2019)



Commedia piuttosto inusuale per il panorama produttivo italiano, Il grande salto segna l’esordio alla regia di Giorgio Tirabassi, che aveva già lavorato con Ricky Memphis nella popolare serie tv Distretto di polizia e nel film Il branco (1994) di Marco Risi. L’attore racconta la storia di due spiantati romani alle prese con una quotidianità fatta di limiti e privazioni, segnata da un destino che è impossibile dominare e da un affaccendarsi che sembra non avere spiragli e non portare a nessun obiettivo degno di nota. Dietro la superficie di un’ironia estremamente romanesca, si respira un senso di profondo disagio esistenziale, prontamente riscattato da una disillusione che non rinuncia alla possibilità della svolta, della risalita, della zampata risolutiva: una spinta restituita con grande efficacia dalla recitazione dei due protagonisti, controllata e in sottrazione, ma anche dalla precisione con cui viene mostrato l’arrabattarsi di Rufetto e Nello negli angoli più remoti, periferici e dimenticati della Capitale. 

Bangla (Phaim Bhuiyan, 2019)



Interessante opera prima dell’italiano di seconda generazione Phaim Bhuiyan, nato e cresciuto a “Torpigna”, Bangla è una sincera commedia che trova negli efficaci tempi comici dell’attore e regista uno slancio di vitalità non indifferente. La trama, di per sé molto esile, segue una relazione sentimentale tra due giovani legati a condizionamenti culturali molto diversi, ma la tratteggia con sufficiente brio e con un’ironia che investe tanto le differenze culturali e i rispettivi tic e idiosincrasie, quanto una notevole aderenza alla vita del protagonista, che Bhuiyan delinea ricorrendo a non pochi echi autobiografici.
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