News
L’ombrellone: perché la Riccione di Dino Risi fu la crudele risposta balneare a La dolce vita
L’ombrellone non è certo tra i film più noti di Dino Risi. Occupa, tuttavia, un posto di assoluto rilievo non solo all’interno della filmografia del regista de Il sorpasso ma anche dentro la geografia e la mappatura che è possibile fare, degli anni ’60, attraverso il cinema italiano di quel decennio. Il protagonista è l'ingegner Enrico Marletti (Enrico Maria Salerno), che a Ferragosto parte da una Roma torrida e ormai deserta per raggiungere al mare la moglie Giuliana (Sandra Milo), esponendosi insieme a lei a un bilancio quantomeno agrodolce, e tutt’altro che privo di durezza, della loro unione. 



Siamo sicuramente di fronte a una fotografia dell’Italia del boom “satura e sovraesposta”, come la definiamo nella nostra scheda del film, e ne L’ombrellone si sentono ancora fortissimi gli echi de La dolce vita e, forse, perfino di . Gli occhiali colorati ma trasparenti del personaggio principale, una sorta di alternativa più bizzosa e ruspante alla presenza-catalizzatrice di Mastroianni nei film di Federico Fellini, sono l'emblema inequivocabile del tentativo di Risi di fare il verso all’alter ego del cineasta riminese (per tacere della presenza, come protagonista femminile, della Milo), nato proprio da queste parti, in prossimità di una riviera romagnola godereccia e brulicante come stereotipo impone.



Il grottesco d’autore caro a Fellini, che pure sopravvive ne L'ombrellone come una sorta di scoria e di residuato incancellabile, si stempera in una raffigurazione della folla, degli ambienti e dei tradizionali spazi d’aggregazione estivi che si ergono a loro volta a specchio della società, a radiografia di una porzione di temporalità e di umanità circoscritte e ben precise. Siamo tutti noi a finire sotto la lente d’ingrandimento, come sempre con la commedia all’italiana, anche se L’ombrellone somiglia più alla ronda sofisticata di una borghesia annoiata, a una versione in costume - ma nel senso abituale con cui siamo soliti pensare a quest’espressione - de La notte di Antonioni (che naturalmente in questo caso è anche è soprattutto una notte della borghesia italiana). Un regista, Antonioni, che Risi ne Il sorpasso, suo film ferragostano decisamente più fortunato de L’ombrellone e di soli tre anni prima, metteva gioiosamente alla berlina attraverso la celebre battuta di Gassman.

L’ombrellone è, a rivederlo oggi, anche catalogo pop di brani musicali dell’epoca che utilizza le prerogative del musicarello per rivaleggiare proprio, con perversa e rigenerante malizia (e altrettanta cattiveria, soprattutto sul versane del costume), sul terreno del cinema d’autore tradizionalmente riconosciuto: una canonizzazione dove un film come L’ombrellone non verrà probabilmente mai inserito, per la sua natura ritenuta a torto spuria e transitoria. Nonostante le citazioni, disseminate qua e là a mo’ di pepite e nonostante ciò tutt’altro che peregrine, di Pablo Neruda, Oscar Wilde, Dylan Thomas e - perfino - Eugenio Montale, al cui verso da Le occasioni Tu non ricordi; altro tempo frastorna la tua memoria” è affidata la chiusura dell’arco narrativo del personaggio di Sandra Milo. Una fisionomia, quella de L’ombrellone, che tocca tante corde profonde e trova il modo di parlarci fino a oggi, in una strana e più che in parte interdetta estate di 55 anni dopo, in tutta la sua irrequieta e malinconica modernità



Un sentimento, quest’ultimo, ad esempio totalmente assente nel recente film Netflix Sotto il sole di Riccione (di cui vi parlavamo qui, nella nostra scheda), film generazionale concepito in vitro con la supervisione di Enrico Vanzina ma incapace di lavorare sulle zone d’ombra (e sulla solarità in piena luce) degli amori e delle amicizie estive, né tantomeno su quelle del desiderio e della nostalgia, elementi che l’estate e lega a doppia mandata e rende inscindibili da sempre. 

L’ombrellone, dal canto suo, è invece un film a tutti gli effetti proto-vanziniano per tanti motivi e per una ragione in particolare: la colonna sonora in presa diretta, da vero instant movie, coincide con il modo che hanno i Vanzina di usare le canzoni nei loro film, dove sono sempre tantissime, come in un best of onnicomprensivo del pop di largo consumo, e accompagnano le vicissitudini dei personaggi schiacciandosi dietro di essi come dei fondali, come note di colore. Ne L’ombrellone troviamo, tra le tante, Il mondo di Jimmy Fontana ("Smettila con questa lagna tedesca, fai suonare Il mondo!"), arrangiata da Ennio Morricone come in queste ore tanti hanno giustamente ricordato, Rimpiangerai di Gino Paoli, Viva la pappa col pomodoro di Rita Pavone e la meno nota, ma posta non a caso in apertura, Sulla sabbia c'era lei di Herb Newma eseguita da Sonia e le Sorelle (per tacere di Chi siete di Lelio Luttazzi eseguita da Mina). 

Il determinismo citazionista nei film dei Vanzina non riguarda solo le canzoni e investe anche tanti altri aspetti, dai dialoghi ai personaggi pubblici di volta in volta scomodati, tanto da rendere i loro film dei documenti inevitabilmente postumi già mentre li guardiamo. Ne L’ombrellone, che a differenza dei Vanzina ha un gusto più saturo per le inquadrature da riempire di oggetti, lavorando d’accumulo con un sottofondo disturbante che si nutre dell’abbondanza e della confusione (la scena dell’asta ingolfata di ventagli, ad esempio), ci sono però molte battute tipicamente vanziniane. A riprova di come questo film abbia anticipato in un certo senso anche Sapore di mare pur negandone a chiare lettere, in partenza e quasi vent’anni prima, ogni strisciante e implicito ottimismo edonistico. 



Tra di esse si va delle più innocue, da cinepanettone ante-litteram (“Ti ricordi che per una manica Hitler perse la battaglia d’Inghilterra?”, “C’è vita su Marte?S Sì, il sabato sera”), ad altre citazioni alte e attente alla sensibilità femminile come quella di Sacha Guitry ("Le donne oneste sono inconsolabili degli errori che non hanno commesso"), passando per le stoccate urbane (“Venezia, che città barbosa”) a quelle ai meridionali fatte da settentrionali ("Mia madre non voleva che sposassi uno della bassa Italia, ma siccome non ho mai avuto pregiudizi razziali”) e tantissime altre. Ne citiamo, a scopo esemplificativo, soltanto un'altra, “La principessa Adolfi nasce Boncompagni ma è una lontana parente di Milva”: una battuta che i Vanzina, proprio come tutto il film, devono essersi studiati al millimetro insieme a tutto il codazzo di gigolò, panfili e commendatori, spaghettate e bluff a poker che vanno di pari passo con la rinegoziazione degli appetiti familiari e sessuali e, incidentalmente, anche degli affetti.

In mezzo al bailamme de L’ombrellone, che scomoda anche una partita a calcio tra scapoli e ammogliati in spiaggia anticipando Fantozzi di Luciano Salce e pure l'Italia-Marocco di Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba, la battuta più bella, sintesi fulminante che vale più di cento analisi di costume, la pronuncia però la Giuliana di Sandra Milo quando una ragazza straniera, nel corso di una cena coniugale moralmente asperrima, saluta Enrico strizzando l’occhio: “Crede che in Italia si saluti così”. Un momento che funge da più disincantato apice, dietro l'apparente ironia scacciapensieri, di un film vacanziero che è anche una visione estiva imprenscindibile, dove la sabbia delle spiagge romagnole è anche quella del tempo che scorre tra le dita e il sole, come sarà in Ecce bombo di Nanni Moretti, sorge forse dalla parte sbagliata. 



Davide Stanzione
Maximal Interjector
Browser non supportato.