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La stagione d'oro della commedia all'italiana, da I soliti ignoti a I nuovi mostri
Amatissima corrente cinematografica che ha raggiunto il suo massimo splendore tra la fine degli anni '50 e la fine degli anni '70, la commedia all'italiana è un autentico simbolo del nostro cinema, a metà strada tra impegno autoriale e sane intenzioni popolari. Monicelli, Scola e Risi sono i tre assi che l'hanno codificata e realizzata meglio di chiunque altro, mettendo in immagini alcune delle sceneggiature più straordinarie che si siano mai viste in Italia. Impossibile non citare autori come Age & Scarpelli, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Tullio Pinelli, Rodolfo Sonego, Bernardino Zapponi e Ruggero Maccari, che con la loro affilata lucidità di scrittura, cinica e ironica, hanno fatto in modo che venisse alla luce questa meravigliosa serie di film. Senza dimenticare l'apporto di attori del calibro di Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni.

Ripercorriamo qui le tappe più significative della commedia all'italiana, con la classifica dei venti titoli assolutamente imperdibili che hanno segnato il genere.

20) I nuovi mostri (Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, 1977)



Amaro, tagliente e segnato dall'atmosfera opprimente dei cosiddetti anni di piombo, il film è meno incisivo rispetto al predecessore I mostri (1963) nello scandagliare satiricamente i molti vizi nazionali, ma dimostra una propensione per il grottesco e un'ironia aggressiva che ne costituiscono al tempo i limiti e la forza: si passa da vertici di demenzialità volgare e assoluta (Hostaria!, con Gassman e Tognazzi che ne combinano di tutti i colori in cucina) a segmenti tranchant (Senza parole), da momenti irresistibilmente esilaranti (First Aid, con un Sordi in stato di grazia nell'incarnare il debosciato Giovan Maria Catalan Belmonte, “cavalier preposto al Soglio Pontificio”) a un senso di disturbante desolazione (Come una regina). Comicità e indignazione, risate e malinconia: un'opera squilibrata e altalenante che, a suo modo, colpisce nel segno. Da rilevare l'ultimo episodio (L'elogio funebre), che segna il tramonto definitivo dello spensierato avanspettacolo e, simbolicamente, della commedia all'italiana, che necessariamente deve adeguarsi ai tempi che cambiano.

19) Straziami, ma di baci saziami (Dino Risi, 1968)



Folcloristica commedia diretta da Dino Risi, in cui la sceneggiatura di Age & Scarpelli ricodifica gli stilemi tipici del pittoresco immaginario popolare (il colpo di fulmine, il sentimento travagliato, la fuga dell'amata e l'inseguimento contrastato da un fato avverso), eccedendo a tratti in teatralizzazione e in caratterizzazioni stereotipate. In compenso, il registro comico è semplicemente irresistibile, con sequenze da antologia (Nino Manfredi che tenta di sedurre Pamela Tiffin sulle note di Io ti sento, cantata da Marisa Sannia) e dialoghi resi epocali dall'alterazione dialettale («Sei tu Scortichini Guido?»; «Sì, che vòi?»; «Niende. Te volevo conosce, volevo vedè'n faccia chi sei. Tempo ar tempo. E ricordete che se tu sei er gigante de Rodi, io nun so' er nanetto de Biancaneve. 'N campana, eh?»). Memorabile Ugo Tognazzi, sarto sordomuto con pettinatura alla Harpo Marx.

18) Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto (Lina Wertmüller, 1974)



Tra avventura, sentimento e satira politica, Lina Wertmüller dirige e sceneggia una commedia caustica e grottesca, perseguendo con coerenza la sua idea di cinema sociale. Ecco che la lotta di classe trova qui compimento nell'azzurro mare sardo: l'isola deserta dove i due protagonisti riparano si fa metafora geografica di un mondo primordiale, libero e scevro dalle sovrastrutture sociali, dove l'unica realizzazione possibile diventa l'ostinato istinto di sopravvivenza. «Ve la siete inventati voi borghesi, la volgarità!» grida Carunchio, scagliandosi contro la ricca industriale: la società moderna, vista come ingranaggio deformante che crea squilibri tra l'onnipotenza borghese e la disperazione proletaria, diventa quindi il mezzo primario per denunciare le imprescindibili contraddizioni nazionali (esemplificate nell'amaro finale). Qualche lungaggine di troppo, soprattutto nella parte centrale, ma la tesi fondante colpisce nel segno e la coppia protagonista Giannini/Melato, in stato di grazia, regala sequenze da antologia. Fotografia di Ennio Guarnieri, musiche di Piero Piccioni. La canzone che si sente in sottofondo durante la telefonata tra Gennarino e Raffaella quasi al termine del film è la celebre Signora mia cantata da Sandro Giacobbe, grande successo dell'estate 1974.

17) Per grazia ricevuta (Nino Manfredi, 1971)



Commedia dolceamara sugli effetti di una religione mistificatoria e distorta. Nino Manfredi (protagonista, regista e autore della sceneggiatura con Leo Benvenuti e Piero De Bernardi) si mette in gioco appieno, accentuando la componente autobiografica (l'iter del personaggio si sovrappone a quello dell'interprete) e tratteggiando con delicatezza estrema le paure infantili, le ossessioni giovanili e le disillusioni della maturità. Un piccolo film, strabordante di umana paura, con una personalissima ma universale idea di fede: uniche pecche, la scarsa fluidità e un leggero autocompiacimento. Cast semplicemente perfetto, con menzione d'onore per lo straordinario Lionel Stander. Presentato in concorso alla 24ª edizione del Festival di Cannes, dove si aggiudicò il premio come miglior opera prima.

16) Casotto (Sergio Citti, 1977)



Un'umanità variegata, miserabile e veritiera si incontra e si scontra nel casotto messo al centro della scena da Sergio Citti, vero e proprio catalizzatore di una commedia scarna, rispettosa dell'unità di luogo (totalmente ambientata nella cabina) e basata su una scrittura di caratteri pungente, ironica e profondamente reale. Sulla spiaggia di Ostia si susseguono memorabili gallerie di tipi umani che divertono e immalinconiscono con le loro dimostrazioni di medietas italiana: la fame atavica, il banchetto luculliano allestito in cabina, le maligne furberie e l'avidità di una nazione che, nonostante gli sforzi post-boom di emergere socialmente, rimane irrimediabilmente “coatta”, suscitano un riso amaro e beffardo nello spettatore, che non può mancare di identificarsi in vizietti e meschinità. Scenografia efficace, per quanto ridotta all'osso, di Dante Ferretti, sceneggiatura di Vincenzo Cerami e Sergio Citti, fotografia di Tonino Delli Colli e musiche di Gianni Mazza.

15) Fantozzi (Luciano Salce, 1975)



Primo di una lunga serie di film che avranno come protagonista lo sfortunatissimo ragioniere, simbolo di un ceto perennemente insoddisfatto, destinato alla mediocrità e a veder frustrate tutte le proprie, seppur modeste, ambizioni. Un titolo di culto, costellato di battute entrate nel linguaggio comune, stracitato in qualsiasi contesto e popolato da situazioni surreali e tragicomiche che hanno segnato l'immaginario collettivo di almeno due generazioni. Un film straordinariamente esilarante, sia per il personaggio di Paolo Villaggio, sia per i vari comprimari (il semicieco collega Filini, interpretato da Gigi Reder, e la bruttarella signorina Silvani, cui dà corpo una grottesca Anna Mazzamauro). L'Italia degli anni Settanta viene ritratta impietosamente, con un quadro sociale che echeggia, anche nel linguaggio ricco di neologismi e stilemi ricorrenti, il feroce romanzo a episodi dello stesso Villaggio.

14) Venga a prendere il caffè da noi (Alberto Lattuada, 1970)



Tratto dal romanzo La spartizione di Piero Chiara, un film anomalo nel panorama cinematografico italiano, che miscela con sottile eleganza la provocazione sopra le righe, a tratti genuinamente volgare, e la commedia di denuncia dei grotteschi costumi italioti. La pellicola diventa l'occasione per riflettere sulla vacuità della piccola provincia italiana (il protagonista decide di sposarsi a una età inconsueta per poi non vivere alcun valore di tale scelta) e sulla superficialità dei rapporti umani. Ugo Tognazzi regala l'ennesima parte memorabile della sua carriera, in un ruolo cucitogli addosso alla perfezione. Risate a denti stretti e una sana dose di intelligenza, dal primo all'ultimo minuto. Da segnalare la suggestiva ambientazione sul Lago Maggiore, con Luino protagonista. Musiche di Fred Bongusto.

13) Lo scopone scientifico (Luigi Comencini, 1972)



«Trovo che Lo scopone scientifico sia una favola molto giusta sulla lotta dei deboli contro i potenti». Luigi Comencini mette in scena una spietata lotta di classe, caratterizzata dal costante braccio di ferro tra plebe e alta borghesia, e tratteggia l'utopica ansia di rinnovamento e l'illusione di una seconda occasione (non a caso, tipicamente americana) impossibile da ottenere. Spingendo il pedale della veridicità (con un furore quasi neorealista, evidente anche nel linguaggio spiccatamente dialettale), il regista delinea la degenerazione morale e materiale dei due protagonisti, i proletari Peppino (Alberto Sordi) e Antonia (Silvana Mangano), pronti a tutto pur di scampare alla povertà. In questo gioco al massacro, chi ha la visione più nitida della vicenda sono i bambini, spesso elemento salvifico nel cinema comenciniano. E il finale, in bilico tra sgomento e senso di giustizia, è perfettamente funzionale allo spirito di un film che rivela la sua reale natura di fiaba nera, tragica e grottesca.

12) In nome del popolo italiano (Dino Risi, 1971)



Age & Scarpelli scrivono per Dino Risi una sceneggiatura di prim'ordine, capace attraverso l'ormai sottilissimo velo della commedia di fotografare al meglio un paese alle prese con un degrado morale inarrestabile. Gli autori sono tra i primi a capire che la forbice ideologica che ha sempre contrapposto le guardie ai ladri si stava gradatamente chiudendo; Tognazzi e Gassman, per l'ennesima volta insieme, prestano il volto a due personaggi simbolo di un paese ormai economicamente agiato, ma sprofondato nei meandri dell'inquinamento non solo morale (gran parte delle scene hanno come fondali dei paesaggi contaminati e desolanti). Una commedia amarissima e profetica, quadro di un'abiezione inarrestabile e destinata a diventare consuetudine.

11) Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976)



Commedia drammatica venata di grottesco diretta da Ettore Scola (anche sceneggiatore con Ruggero Maccari), che tinge la macchina da presa di rigido realismo e verismo, non rinunciando a una contaminazione caricaturale e deformante. Le immagini malsane e brulicanti della periferia romana più disastrata, con primi piani atti a inquadrare la turpitudine fisica e morale dei protagonisti, denunciano la totale assenza di moralità di un'Italia dimenticata, divorata dalla sete di possesso e di consumo. Nulla viene risparmiato: mutilazioni, sesso, turpiloquio, violenze e degrado. Uno stile registico impietoso e scevro da ogni retorica o pietà nel tratteggiare la deriva della povertà. Intensa e memorabile l'interpretazione di Nino Manfredi, gretto antieroe chiuso nel suo cinico egoismo. Premio per la miglior regia alla 29ª edizione del Festival di Cannes.

10) Amici miei (Mario Monicelli, 1975)



Un corale, goliardico e cameratesco manifesto sull'amicizia, sentimento che nasce sin dai titoli di testa in cui il regista Monicelli cita e omaggia l'amico Pietro Germi, prematuramente scomparso e a cui apparteneva inizialmente il progetto che doveva essere ambientato a Bologna. I protagonisti, Giorgio Perozzi (Philippe Noiret), il Conte Mascetti (Ugo Tognazzi), Rambaldo Melandri (Gastone Moschin) e Guido Necchi (Duilio Del Prete) e il Dottor Sassaroli (Adolfo Celi), sono bambinoni mai cresciuti, dediti alla burla compulsiva, uniti da un legame sincero e profondo, capace perfino di oscurare le relazioni con il gentil sesso. Ma, come nella miglior tradizione della commedia all'italiana, farsa e tragedia si combinano e, dietro la facciata spensierata e allegra, si nasconde un'umanità spaventata e fragile, sconvolta dagli anni di piombo e avvilita dai propri fallimenti personali. Intriso di malinconia crepuscolare da crisi di mezza età che serpeggia tra una gag e l'altra, il film è un classico senza tempo, interpretato da attori indimenticabili.

9) Signore & signori (Pietro Germi, 1965)



In questo trittico di episodi ambientati in una cittadna del Veneto (molto probabilmente Treviso), Germi conduce una lucida e corrosiva analisi sociale sull'Italia del tempo, mettendo in luce ipocrisie e fatuo perbenismo della piccola borghesia dell'epoca. Lo squallore della provincia è reso attraverso una galleria di personaggi meschini e grotteschi, perfidi e spietati, benestanti ma sostanzialmente infelici e moralisti. La satira scandaglia con ironia sagace e amaro disincanto tutti i componenti di questo avvilente quadro umano senza risparmiare nessuno: le donne dispotiche o frustrate si mostrano più incisive e feroci dei rispettivi uomini, così come contadini e giornalisti non fanno certo una figura migliore degli avidi e presuntuosi borghesi. Magistrale direzione degli attori. Palma d'Oro a Cannes, ex aequo con Un uomo, una donna di Claude Lelouch.

8) I mostri (Dino Risi, 1963)



Inimitabile galleria di personaggi e vicende, per quello che a pieno diritto può essere considerato il prototipo dei film a episodi. Pur rispettando la sua natura spezzata e frammentaria, la pellicola gode di un'unitarietà d'indenti difficile da riscontrare in operazioni simili. Il regista e gli sceneggiatori (Age & Scarpelli, Ruggero Maccari, Elio Petri, Ettore Scola e lo stesso Risi) fissano sullo schermo tutte le sfumature di un boom economico che inevitabilmente genera dei mostri, uomini e donne che cercano di restare aggrappati al progresso, che sopravvivono nella giungla urbana sfruttandone furbescamente ogni zona d'ombra. Qui al loro meglio, Gassman e Tognazzi si dimostrano inimitabili camaleonti da farsa, volti che si modellano e divertono nonostante i loro personaggi compiano, in fondo, gesti negativi. Famiglia, cultura, sport, sessualità, religione e giustizia, tutti temi che trovano spazio in quello che può essere giustamente considerato uno dei più esaustivi quadri della società dell'epoca.

7) L'armata Brancaleone (Mario Monicelli, 1966)



I titoli di testa che aprono il film, animati dall'inconfondibile tratto del celebre illustratore Emanuele Luzzati e accompagnati dalle bellissime musiche di Carlo Rustichelli (il motivetto della pellicola diventerà un vero e proprio tormentone), sono la prima gemma da ricordare di un film esaltante e memorabile. Una spassosa commedia all'italiana corale che narra le vicende di uno scalcinato gruppo di anti-eroi alle prese con un'impresa fuori dalla loro portata. Il Medioevo come mai prima era stato raccontato, la farsa utilizzata per svelare crudamente la realtà di un periodo che nell'immaginario collettivo è fatto di dame, castelli e cavalieri. Creare ad hoc per la pellicola un linguaggio a metà tra il volgare dell'epoca e un italiano dialettale contemporaneo è una geniale trovata che non pregiudica affatto l'effettiva comprensione del film, ma, anzi, ne diventa spassoso marchio di fabbrica. Un esempio perfetto di contaminazione tra diversi stili, per una operazione di finezza rara. Assolutamente indimenticabile Vittorio Gassman nei panni di un disgraziato di ventura maldestro, ottuso e poco lucido, che può addirittura ricordare la versione farsesca di un samurai uscito da un film di Akira Kurosawa. Presentato in concorso al Festival di Cannes.

6) Divorzio all'italiana (Pietro Germi, 1961)



Svolta improvvisa nella carriera di Pietro Germi, il quale, dopo i successi dei suoi ultimi film drammatici (Il ferroviere del 1956, L'uomo di paglia del 1958 e Un maledetto imbroglio del 1959), passò alla commedia, firmando uno titoli di riferimento dell'intero genere. Strepitoso e graffiante atto d'accusa contro una società italiana ipocrita e arcaica, ancorata a modelli culturali e sociali ormai vetusti e anacronistici come l'assenza di una legge sul divorzio e il mantenimento dell'articolo 587 del codice penale che regolava il delitto d'onore. Con una carica sarcastica arguta e un'inventiva comica sempre sorprendente, Germi descrive una società (siciliana) grottesca e drammaticamente arretrata, e prende di mira l'immobilismo di un mondo che non sa e non vuole cambiare, incapace di evolversi, sospeso tra un perbenismo di facciata e pulsioni sfrenate (esemplare in tal senso la spassosa sequenza in cui viene preso d'assalto un cinema dove è proiettata La dolce vita di Federico Fellini, pellicola “scomunicata” dal parroco del paese). Straordinaria prova di Marcello Mastroianni. Premio al Festival di Cannes come miglior commedia, Oscar alla miglior sceneggiatura (Germi, Ennio De Concini e Alfredo Giannetti), più altre due nomination (miglior regia e miglior attore protagonista). Il titolo del film diede il nome al neonato filone cinematografico della commedia all'italiana.

5) Una vita difficile (Dino Risi, 1961)



Dino Risi racconta l'Italia dall'8 settembre '43 fino al boom economico, e lo fa circoscrivendo i toni da commedia per gettarsi nelle fauci di un dramma malinconico e amarissimo. L'ex partigiano Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) fa il giornalista in una testata di sinistra e ha sposato la provinciale Elena Pavinato (Lea Massari). Una vita fatta di pochi alti e tanti bassi, sempre all'insegna della dignità. I protagonisti sono due straordinari archetipi di un paese che con gli anni scompare nella nebbia del progresso, dimenticato dalle abbaglianti luci dell'opulenza ritrovata.  Il messaggio è forte e chiaro: in una società dove scompaiono gli ideali e contano solo gli obiettivi, è necessario scendere a compromessi. O forse no? Alberto Sordi, impegnato in un ruolo spiazzante per il pubblico, abituato a vedere l'attore sempre nei panni dell'egoista disposto al sotterfugio, offre la più grande interpretazione di tutta la sua carriera. Magistrale sceneggiatura di Rodolfo Sonego.

4) La grande guerra (Mario Monicelli, 1959)


Ambientare la già collaudata commedia nazionale durante un evento/periodo storico passato, come accadde anche ne L'armata Brancaleone (1966), è un'idea geniale destinata a diventare un marchio di fabbrica del cinema italiano negli anni a venire. Gli sceneggiatori (Luciano Vincenzoni, Age & Scarpelli e lo stesso Monicelli) partono dai realistici e cruenti racconti delle trincee (ispirandosi, ad esempio, a Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu), per poi affidarsi ai dialoghi brillanti e alle situazioni di grottesca quotidianità sul fronte. Grande successo di pubblico e critica, a dimostrazione che la linea, seguita con personalità dal regista, non solo è coraggiosa (di fatto, questo è uno dei primi film italiani che racconta il primo conflitto mondiale, all'epoca ancora tabù), ma anche rappresentativa di una precisa corrente cinematografica. Straordinarie le prove di Sordi e Gassman, capaci di dare vita a due personaggi codardi ma profondamente umani che fanno spassosamente a gara per imboscarsi lontano dagli scontri, e memorabile sequenza finale in cui il Monicelli riporta drammaticamente lo spettatore di fronte alla cruda realtà della guerra. Leone d'oro a Venezia ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e nomination agli Oscar come miglior film straniero.

3) C'eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974)



Scola adotta uno stile registico soffuso e malinconico, lineare nonostante i numerosi salti temporali, per stigmatizzare la caduta degli ideali politici e personali, le dolorose prese di coscienza che portano inevitabilmente alla tragedia e il definitivo tramonto di una certa figura di intellettuale con, sullo sfondo, la grande Storia italiana, dalla Resistenza al post "boom economico", dal Neorealismo ai fatidici anni '60, che resero grande il cinema italiano. Nostalgica fotografia della nazione che fu (e che mai più sarà), cristallina contaminazione tra privato e pubblico, ma anche romanzo storico in pellicola che chiarisce (senza presunzione, ma con tenera rassegnazione) come le età della vita e del Tempo possano cambiare o meno l'uomo. E regala un puro, commovente e memorabile elogio dell'amicizia. L'epopea dei tre protagonisti, in bilico tra onestà, meschinità, piccinerie e ricerca della felicità, diventa un maestoso esempio di cinema italiano: popolare nel racconto, stimolante negli affondi critici, intelligente e accattivante nella forma. Meravigliosi Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, ma Stefania Sandrelli e Giovanna Ralli non sono da meno. La summa e, allo stesso tempo, il nobile canto del cigno della commedia all'italiana. «Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi».

2) I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958)


Non si tratta di una semplice parodia italiana dei caper movie (sottogenere del thriller in cui una banda compie un grosso colpo criminale), ma di un film epocale, che segna la nascita della "commedia all'italiana": grazie a I soliti ignoti si sviluppa prepotentemente in Italia un nuovo genere cinematografico che, da lì a pochi anni, renderà alcuni nostri cineasti famosi in tutto il mondo. Vengono abbandonati per la prima volta i classici canoni del comico e, secondo un modello di neorealismo applicato a un contesto più leggero, la farsa si lega a doppia mandata alla quotidianità più dura; non ci sono più gli sketch che nascondono una critica sociale, ma è la critica sociale a essere inframmezzata da parentesi divertenti. Un modello più volte imitato e mai eguagliato, che ha generato numersoi epigoni. Cast da standing ovation, che comprende Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Renato Salvatori, Carla Gravina, Claudia Cardinale, Tiberio Murgia, Carlo Pisacane e Totò. Sceneggiatura di Monicelli, Suso Cecchi D'Amico, Age & Scarpelli, fotografia di Gianni Di Venanzo, musiche di Piero Umiliani e costumi di Piero Gherardi. Meraviglia assoluta.

1) Il sorpasso (Dino Risi, 1962)



Corre veloce senza sosta Bruno Cortona (Gassman), simbolo di una società ormai preda di un benessere inarrestabile e sferzante che non permette alcun rallentamento. Mai nessuno come Dino Risi ne Il sorpasso è stato in grado di fotografare e scomporre un intero paese attraverso il gioco (ormai svelato) della commedia all'italiana. Uno straordinario racconto costruito forsennatamente a strati: oltre alla più lampante critica sociale, in cui i ristoranti brulicanti e le spiagge che ballano al ritmo di Edoardo Vianello ne sono la più naturale rappresentazione, c'è una radicale e profonda analisi del boom economico. In un momento di opulenza assoluta, Risi (insieme agli altri due sceneggiatori, Ettore Scola e Ruggero Maccari) riesce attraverso il difficile gioco del contrasto, a giostrare i suoi due personaggi principali affinché rappresentino al meglio il passato, il presente e il futuro della nazione. Il passato è Roberto (Trintignant): studente che, seppur giovane, ha ereditato la propensione al sacrificio e all'abnegazione tipica della generazione dei suoi padri. Una generazione che ha attraversato la guerra, costretta a ricostruire e ad affermarsi attraverso il merito. Il presente è invece Bruno: ormai attempato sciupafemmine intento a vivere senza rimpianti una bella vita fatta di contraddizioni e problemi. Un esempio negativo, arricchito, senza valori ma dotato di faccia tosta e sempre abilissimo nell'arte di sapersi arrangiare. Mentre il futuro, amaro e incredibilmente difficile, aspetta infingardo entrambi i protagonisti dietro una curva stretta e pericolosa. Fotografia di Alfio Contini, musiche di Riz Ortolani. Capolavoro.
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