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Joaquin Phoenix – Da Commodo a Joker, i ruoli più iconici di un maestro della recitazione
Joaquin Phoenix, ovvero il bello e dannato della Hollywood del Nuovo millennio, simbolo di una industria cinematografica in grado di sfornare ancora oggi, esattamente come ai tempi d'oro dell'Actors Studio, talenti limpidi e cristallini. Segnato da una vita di eccessi e tragici avvenimenti (è stato uno dei testimoni della morte per overdose del fratello minore River, scomparso a soli 23 anni), Phoenix ha finora saputo scegliere con perizia certosina i film in cui recitare, costruendosi una carriera già ora paragonabile a quella dei grandi del passato.

«Conta soltanto avere un’esperienza reale mentre sto recitando, quindi non penso alla reazione del pubblico. Non recito per appagare o irritare gli spettatori, non mi chiedo se un personaggio possa apparire troppo – o troppo poco – controverso, se un ruolo sia da Oscar, se una storia possa far piangere, ridere, incazzare o entrare nel dibattito contemporaneo» (Dall'intervista di Veronica Raimo Joaquin Phoenix, l’alcolismo e la satira: «Recitare significa annullarsi», RollingStone, 2 Settembre 2018)

Ridley Scott, M. Night Shyamalan, James Gray e Paul Thomas Anderson sono solo alcuni degli autori con cui ha collaborato: ma quali sono i personaggi più indimenticabili che Joaquin Phoenix ha interpretato? Andiamo a scoprirli in una top 10 da brivido:

10) Commodo ne Il gladiatore (2000)


Il film che ha rilanciato la carriera di Ridley Scott e fatto di Russell Crowe una star internazionale. Un kolossal imponente, un granitico spettacolo, visivamente impeccabile e capace di ammaliare, facendo passare in secondo piano le grossolane imprecisioni storiche. Un film sicuramente sopravvalutato, ma di innegabile fascino: purissimo cinema di intrattenimento confezionato in maniera mirabile, corredato dalla giusta dose di epicità e da una regia ispirata che orchestra una messa in scena sfarzosa e di potente resa cinematografica. Enorme successo di pubblico e trionfo agli Oscar con cinque statuette vinte (miglior film, attore protagonista, costumi, sonoro, effetti speciali) su dodici nomination. Oliver Reed è morto durante la lavorazione e le sue ultime scene sono state realizzate grazie all'uso della computer grafica e di una controfigura.

9) Johnny Cash in Quando l'amore brucia l'anima (2005)


Biopic su una delle figure fondamentali del rock/folk americano, ispirato a Cash: The Autobiography (1997) di Johnny Cash e Patrick Carr e a Man in Black del solo Cash. Il film descrive il percorso che parte dall'infanzia dell'artista, segnata dalla morte del fratello e dal rapporto conflittuale col padre, fino alla scoperta della musica, alle prime incisioni per l'etichetta Sun Records, ai primi tour condivisi con Elvis Presley e Jerry Lee Lewis. Ma il nucleo dell pellicola è il lungo, tormentato e salvifico rapporto con June Carter (Reese Witherspoon), partner prima musicale e poi di vita: una relazione più forte delle intemperanze, degli eccessi di Cash e degli sguardi ostili dell'opinione pubblica (entrambi venivano da precedenti matrimoni). Pellicola senza particolari tratti distintivi registici, Quando l'amore brucia l'anima è un prodotto, comunque, solido e coinvolgente, che si fonda quasi interamente sulle straordinarie interpretazioni, attoriali e canore, dei due protagonisti: se Joaquin Phoenix diventa Cash con grande naturalezza, Reese Witherspoon (premio Oscar per la miglior attrice protagonista) sorprende, dando personalità, verve e umorismo alla sua June Carter. Colonna sonora composta da brani di Cash reinterpretati dagli stessi Phoenix e Witherspoon. Nota di demerito per l'adattamento italiano del titolo originale.

8) Theodore in Lei (2013)


C'è molta carne al fuoco in Lei, prima sceneggiatura originale scritta da Spike Jonze (anche regista): in primis, il rapporto dell'essere umano con la tecnologia, seguito da una riflessione sulla solitudine dell'uomo contemporaneo e sulla necessità di trovare affetti stabili, seppur in forma virtuale. L'idea funziona e convince, ma il grande potenziale del soggetto si perde col passare dei minuti a causa di un'eccessiva ridondanza narrativa. Sarebbe stato uno splendido mediometraggio, ma la lunga durata lo rende prolisso e fin verboso. Furbescamente, Jonze utilizza una messa in scena “alla moda”, rendendo la sua pellicola un'elegia high-tech, forzatamente malinconica, per cuori solitari. Dovrebbe emozionare ma, soprattutto nell'ultima mezz'ora, lascia perlopiù indifferenti. In ogni caso, al netto dei limiti dell'operazione, la prova di Phoenix nei panni del protagonista è straordinaria. Nella versione americana la voce di Samantha è di Scarlett Johansson (curiosamente premiata al Festival di Roma come miglior attrice); in quella italiana è di Micaela Ramazzotti. Oscar per la miglior sceneggiatura originale.

7) Abe in Irrational Man (2015)


Woody Allen riprende le atmosfere di Crimini e misfatti (1989) e Match Point (2005) e firma una cupa dramedy (unione tra dramma e commedia) incentrata sul senso della giustizia, sulla morale e sulla solitudine umana: il riferimento principale è ancora una volta Delitto e castigo di Dostoevskij, richiamato esplicitamente e declinato in una chiave contemporanea. Il regista americano gioca troppo di maniera, ma riesce ugualmente a firmare un film di buon spessore psicologico, scorrevole e confezionato con grande cura. Grazie a una sceneggiatura solida e ad alcuni passaggi davvero notevoli (Abe che ascolta il dialogo alla tavola calda), Irrational Man funziona e coinvolge, diverte e fa riflettere. Il merito va soprattutto alla scrittura dell'ottimo personaggio principale, contorto e ricco di sfumature, costretto a uccidere per continuare a “vivere”. Bravissimo Joaquin Phoenix, ma l'intero cast è in buona forma. Preziosa fotografia di Darius Khondji. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2015.

6) Se stesso in Joaquin Phoenix – Io sono qui! (2010)


Realizzato da Casey Affleck, fratello di Ben,il film è un falso documentario con protagonista uno degli attori più cool e dotati della sua generazione che, stanco del mondo del cinema, decide di affrontate la carriera musicale (da rapper!). Il gioco tra realtà e finzione cinematografica è scoperto fin dalle prime sequenze, attraverso un approccio divertito perfettamente funzionale alla vicenda, e l'operazione evita qualunque struttura teorica che possa appesantirlo. Il risultato è affascinante nella sua coraggiosa assurdità, con il burbero Phoenix che interpreta una sorta di parodia di se stesso (ma molto aderente alla sua vita vera). Un film eccentrico, forse altalenante, ma sicuramente da vedere.

5) Lucius in The Village (2004)


Uno dei lavori più complessi e ambiziosi di M. Night Shyamalan, oltre che uno dei suoi lungometraggi più riusciti in assoluto. A metà tra horror e thriller e contraddistinto da toni fortemente politici, il film rappresenta un'allegoria neanche troppo timida degli Stati Uniti post 11 settembre: il villaggio è un nido apparentemente sicuro, chiuso in se stesso, insensibile alle voci che provengono da un esterno che è anche simbolo di una diversità da cui ci si vuole unicamente proteggere; la vera minaccia è difatti insita nella comunità, celata sotto le spoglie di una falsa e ostentata tranquillità. Ne risulta un’acuta riflessione sul concetto (solo apparente) di invulnerabilità e inattaccabilità dell'America, arricchita da un’imprevedibile conclusione che potrebbe far storcere il naso ma che, in realtà, rappresenta il cardine fondamentale su cui poggia il peso di tutto il lungometraggio. Notevole la padronanza del mezzo cinematografico di Shyamalan, capace di portare avanti un cinema metaforico di grande suggestione, coadiuvato per di più da un cast convincente. Nomination all'Oscar per la colonna sonora di James Newton Howard, di primo piano all’interno della struttura filmica e in simbiosi con il contributo, fondamentale, del maestro della fotografia Roger Deakins.

4) Bobby ne I padroni della notte (2007)


Presentato in concorso al 60° Festival di Cannes, I padroni della notte segna il ritorno dietro la macchina da presa di James Gray dopo sette lunghi anni di silenzio (il suo film precedente era The Yards, del 2000). Il risultato è un affascinante dramma postmoderno dalle venature tragiche: con un approccio virile e curato in ogni minimo dettaglio, il film spicca per la sua capacità di unire l'azione – con sequenze di inseguimento da applausi – all'introspezione e la tensione alla riflessione familiare. In una New York fotografata da Joaquín Baca-Asay sotto una coltre algida e plumbea, Gray aggiorna il western e il noir, scegliendo però gli anni Ottanta, quasi a rivendicare un cinema (di genere) d'altri tempi. Il classicismo diventa così un orgoglio da ostentare, declinato attraverso tre personaggi maschili in apparenza adamantini, senza che le caratterizzazioni debbano rinunciare al chiaroscuro: emblematica la dialettica che attanaglia Bobby, diviso tra la sacralità della tradizione familiare e quella del “nuovo” nucleo criminale che gestisce i suoi affari. Maestoso e potente, tanto dal punto di vista narrativo quanto da quello visivo. Di grande erotismo la sequenza iniziale sulle note di Heart of Glass dei Blondie. Musiche di Wojciech Kilar.

3) Arthur Fleck / Joker in Joker (2019)


Gettati i panni da commediografo (un po' come farà il protagonista del suo film), Todd Phillips si cimenta con il cinecomic, raccontando la genesi del celebre villain della DC Comics attraverso una prospettiva autonoma che non si collega a nessun altro film di supereroi precedentemente realizzato. Lontano anni luce dalle innumerevoli trasposizioni sul grande schermo di fumetti, albi e graphic novel di ogni tipo, questo Joker non è altro che un viaggio negli abissi della psiche umana, un action per il grande pubblico che dietro la maschera (è proprio il caso di dirlo) nasconde una operazione di taglio autoriale che riesce nel non facile compito di aderire ai codici di genere trasfigurandoli attraverso una prospettiva per molti versi inedita. Attingendo a piene mani al cinema di rottura americano degli anni ’70 e, in particolare, al sentimento di disillusione alla base del cinema della New Hollywood, il film destabilizza, con inesorabile progressione drammatica, mantenendo sempre perfettamente il focus sul suo debordante protagonista, reietto senza via d’uscita, escluso da ogni forma di relazione sociale in un mondo di lupi famelici. Discesa infernale di vibrante potenza, il film è una moderna rielaborazione del Taxi Driver (1976) di scorsesiana memoria, non solo per la presenza di Robert De Niro, istrionico re per una notte omologato al cinismo circostante. La si può definire una parabola sul degrado morale della società contemporanea, ferita nel profondo dalle atroci derive di dinamiche capitalistiche fuori controllo (significativo, in questo senso, l’occhio poco accomodante con cui è presentata la figura del magnate Thomas Wayne, padre di Bruce), ma anche un neo-noir che segue il percorso esistenziale del protagonista attraverso tappe cruciali costruite secondo un climax narrativo di rara efficacia. Gotham City perde sia l’aura gotica di Tim Burton, sia la geometrica impostazione proposta da Christopher Nolan, per diventare una metropoli multirazziale sporca e cattiva, i cui abitanti sono consapevoli di vivere in un’epoca in cui a dominare sono la cieca violenza, l’intolleranza, il rifiuto di sostegno al diverso, il pregiudizio, l’alienazione e l’incomunicabilità. I rimandi, evidenti, al mondo di oggi, restituiscono senso profondo all’intera operazione senza appesantire un impianto cinematografico comunque orientato all’intrattenimento e allo spettacolo di qualità. Joaquin Phoenix, in una prova da standing ovation che gli è valsa il Golden Globe come miglior attore in un film drammatico e l'Oscar come miglior attore protagonista, dà vita ad Arthur Fleck/Joker con una capacità mimetica propria solo dei più grandi attori della storia del cinema, attraverso un incredibile lavoro sulla fisicità del personaggio, sulla sua tensione emotiva, sulla sua maschera ora malinconica, ora inquietante. Fondamentali per creare la giusta atmosfera la fotografia di Lawrence Sher e la colonna sonora di Hildur Guðnadóttir (premiata con il Golden Globe), violoncellista e compositrice sperimentale islandese. Il film ha vinto il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia, sancendo il primo grande trionfo a un festival di un cinecomic, prima di ottenere due Oscar: miglior colonna sonora e miglior attore protagonista.

2) Leonard in Two Lovers (2008)


Con un atto di coraggio impressionante per il cinema hollywoodiano contemporaneo, James Gray si allontana per la prima volta dalle atmosfere noir a lui congeniali per concentrarsi su un mélo anomalo, diventato uno dei più significativi e affascinanti esempi di dramma sentimentale d'inizio nuovo millennio. Il regista americano non solo vince la scommessa, ma con Two Lovers segna uno degli approdi più alti e sicuri della sua carriera, un'opera destinata a restare nel tempo in virtù della sua preziosa unicità. Attraverso tre personaggi, Gray racconta ciò che sfugge a qualsiasi classificazione, ovvero le sottili oscillazioni del sentimento umano, con tutto il loro carico di imprevedibilità e dolorosità. Caricando New York dello spleen del protagonista (indimenticabile la sequenza nel ristorante che lo inquadra da solo, sullo sfondo, tra le note di Lujon) e muovendosi in perfetto equilibrio tra territori da cinema indipendente e l'onda emotiva da produzioni mainstream, la storia di Leonard si dipana tra piccoli eventi che il regista riempie di una profondità nuova e insieme intimamente inserita nel tracciato della più pura tradizione a stelle e strisce degli anni Sessanta. Tra Cassavetes e Carver, e con un occhio al languore dell'Antonioni più indimenticabile, Leonard si muove realisticamente tra due sentimenti coesistenti, tra due pulsioni complementari. L'amore per le donne che lo circondano (alle amanti si aggiunge la madre interpretata da un'incisiva Isabella Rossellini), regolato da dinamiche contraddittorie, non concede la scelta, ma sceglie, implacabilmente, per lui. Un'opera straordinariamente ellittica, controllatissima da punto di vista formale che rifiuta ogni approccio convenzionale a un tema (e a una condizione esistenziale) di rara intensità. E l'indimenticabile sguardo finale di Phoenix (davvero bravissimo) fotografa la realistica compresenza di felicità e rimpianto propria di ogni svolta della vita di un uomo. Meraviglioso.

1) Freddie Quell in The Master (2012)


Segnato da una lavorazione turbolenta e da numerosi rinvii, il sesto film di Paul Thomas Anderson è il ritratto di un'America ferita, a caccia di certezze e maestri da seguire. L'uomo americano, stretto tra gli orrori della Seconda guerra mondiale e l'imminente conflitto in Corea, si muove in cerca di qualcuno che possa guidarlo e aiutarlo a incanalare in maniera costruttiva forza e brutalità dettate dalla disperazione e da nervi a pezzi. «L'uomo non è un animale. Non facciamo parte del regno animale» è uno dei mantra ripetuti da Lancaster Dodd, quasi a esorcizzare la componente animalesca che in Freddie è evidente (fin dalla postura) e incontenibile (come la sua ossessione per il sesso). I parallelismi tra Dodd e il fondatore di Scientology, L. Ron Hubbard, sono evidenti ma meno centrali di quanto si possa pensare: Anderson, infatti, è interessato a riflettere sulla necessità ineludibile per ogni essere umano di trovare un modello da seguire e al contempo di ricoprire tale ruolo in rapporto a qualcun altro. Visivamente sontuoso (pensato e girato nel formato a 70 millimetri), un film complesso e sfaccettato, ai limiti dell'ermetismo, ostico ma non per questo meno affascinante e che richiede più di una visione per cogliere (o quanto meno provarci) tutte le sue molteplici sfumature e sensi reconditi. Non a caso rifiutato dal pubblico e dagli Oscar. Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman si sfidano in bravura, ma il risultato è un sostanziale pareggio nel segno dell'eccellenza. Ottima anche la prova di Amy Adams. Leone d'Argento per la miglior regia e Coppa Volpi per i due protagonisti alla Mostra del Cinema di Venezia. A un passo dal capolavoro.
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