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Paolo Sorrentino non vince il Golden Globe ma ha una carriera intera per consolarsi
Paolo Sorrentino e l’Italia non escono trionfanti dall'insolita e osteggiatissima 79ª edizione dei Golden Globes. A otto anni di distanza dalla vittoria per La grande bellezza, il regista napoletano sperava di replicare il successo ma non è riuscito ad imporsi sul meraviglioso Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Giappone).


Una carriera ricca di successi quella di Sorrentino (per riviverla assieme è ancora possibile iscriversi al nostro webinar Il cinema di Paolo Sorrentino - Nuova edizione!) che però non sempre ha trovato il favore di pubblico e critica, soprattutto in Italia.


Diversa l’accoglienza all’estero, in particolare negli Stati Uniti, ed ecco perché nonostante la sconfitta vi proponiamo una cronistoria della fortuna del regista, a poche ore dal mancato riconoscimento della sempre meno influente Hollywood Foreign Press Association.





È stata la mano di Dio ci porta nella Napoli degli anni Ottanta raccontandoci di una giovinezza legata indissolubilmente alla propria famiglia e il passaggio brusco, repentino, inaspettato alla vita adulta. Sul finire del film, Fabietto Schisa conosce Antonio Capuano e nonostante le parole del regista decide comunque di partire per Roma:



«Ma è mai possibile che 'sta città nun te fa veni' in mente niente 'a raccuntà? Insomma, Schisa, 'a tieni coccosa 'a dicere? O si' nu strunz' come a tutti quant gli altri? 'A tieni'na cosa da raccontà?»




Sorrentino impiega in realtà molti più anni a lasciare Napoli provando a raccontarla con mutevoli risultati prima assieme allo stesso Capuano, in veste di sceneggiatore, e poi da regista nei primi cortometraggi e nell’esordio L'uomo in più. Il film dà il via al sodalizio con Toni Servillo e soprattutto porta le prime tre importanti nomination ai David di Donatello del 2002. Presentato in concorso al 57º Festival di Cannes, è però il successivo Le conseguenze dell'amore, ambientato in un asettico hotel di Lugano (quanto di più distante dalla città partenopea), a sancirne la consacrazione a nuovo talento del cinema italiano con cinque nomination e cinque vittorie (tra cui miglior film, regista e sceneggiatura) ai David 2005.




I primi scricchiolii con la critica arrivano appena due anni dopo con L'amico di famiglia, presentato nuovamente in concorso al Festival di Cannes (come del resto tutti i successivi lungometraggi fino a Loro) ma pressoché ignorato dalla stagione dei premi. Per capire il salto al lungometraggio successivo, sono nuovamente importanti le parole che Sorrentino sceglie di mettere in bocca a Capuano:


«'O cinema! Vonno fà tutte quant' 'stu cazz'e cinema. Ma pe' da' fo cinema ci vonn'e palle. E tu 'e palle le tieni, guaglio'?»



Il divo è un fulmine a ciel sereno nel panorama cinematografico italiano: l’Andreotti di un incredibile Servillo viene catturato con una potenza nella costruzione delle immagini e un’intelligenza nella messa in scena tali da far sobbalzare sulla poltrona il vero imperturbabile Giulio, ancora in vita nel 2008. È un successo: Premio della giuria al 61° Festival di Cannes e incetta di riconoscimenti in tutto il mondo, a cui si aggiunge l’apertura a lavorare assieme da parte di Sean Penn che di quella edizione era Presidente di giuria. This Must Be the Place rappresenta così l’ingresso dalla porta principale nel cinema d’Oltreoceano, con un cast che vede anche Frances McDormand e naturalmente David Byrne.




La critica statunitense nel 2013 conosce già Sorrentino e dopo l’ultimo lavoro incomincia a interessarsi alla sua produzione precedente: è in questo contesto che arriva il successo internazionale de La grande bellezza con la vittoria del Golden Globe prima e dell’Oscar poi. Ed è proprio in concomitanza con il picco massimo di visibilità ed esposizione mediatica che la fortuna critica di Sorrentino in Italia prende una strada altra da quella internazionale. La Roma mondana vista attraverso gli occhi di Jep Gambardella crea da subito più sdegno che ammirazione e il successo del film viene attribuito dai detrattori alla conferma dell’immagine di un’Italia degenere e mortifera, molto vicina ad un'ipotetica idea stereotipata del nostro Paese. 


«Sono belli i trenini che facciamo alle feste, vero? Sono i più belli del mondo... perché non vanno da nessuna parte.»




Sorrentino non sembra sentire il peso delle critiche e continua il suo percorso su due binari: da un lato le produzioni dal respiro internazionale di Youth – La giovinezza e della serialità televisiva con The Young Pope e The New Pope, dall’altro la coraggiosa ricerca di rappresentazione del potere con un film su Silvio Berlusconi e sugli italiani.


Se Il divo aveva osato tantissimo sul piano formale e simbolico, Loro è un’operazione altrettanto azzardata sin dal titolo che pone diversi interrogativi sul punto d’osservazione. Complice forse la scelta di una distribuzione in due parti, il film non riesce a replicare il successo di premi dei lungometraggi precedenti ma apre la strada al ritorno verso casa. Sia che si vogliano considerare le due parti di Loro sia che si tenga conto della regia dell’episodio di Rio, eu te amo: È stata la mano di Dio veste la numero dieci nella filmografia sorrentiniana. Ancora Capuano:


«Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città.»




Dopo l’apparizione in Youth, Maradona viene omaggiato direttamente nel titolo del film più personale di Sorrentino. Partendo da Venezia 78, dove riceve meritatamente il Leone d'argento (Gran Premio Speciale della Giuria) e il Premio Marcello Mastroianni a Filippo Scotti, il film raccoglie premi e apprezzamenti in tutto il mondo e porta il regista ad altrettanti riconoscimenti personali.

La sconfitta della notte appena trascorsa forse brucia, ma ci dice anche che la possibilità di rifarsi è dietro l'angolo perché il countdown verso gli Academy Awards del 27 marzo è ora ufficialmente partito.



A cura di Andrea Valmori 

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