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Cosa rendeva Pee-wee's Big Adventure la sintesi di tutto il Tim Burton successivo
Ci sono opere prime che in sé riescono a racchiudere ciò che sarà la poetica di un’intera filmografia, opere in grado di far intuire uno stile, un’estetica, una maniera di raccontare storie propria di chi le ha create: è il 9 agosto 1985 e a 26 anni (ne compirà 27 il giorno 25) Tim Burton presenta al mondo il suo primo film, Pee-wee’s Big Adventure



Protagonista è Pee Wee Herman, interpretato da Paul Reubens, divenuto famoso sul piccolo schermo gli anni precedenti con il suo The Pee-wee Herman Show e, su richesta esplicita della Warner Bros., sceneggiatore del film: la sua bellissima bicicletta è stata rubata, farà di tutto per recuperarla. Per la regia viene scelto Tim Burton, che da poco aveva interrotto il suo rapporto lavorativo con la Disney dopo aver partecipato come supervisiore degli animatori a Taron e la pentola magica ma, soprattutto, dopo aver realizzato due gioielli come Vincent (cortometraggio in stop-motion del 1982) e Frankenweenie (mediometraggio in live action del 1984): non mancherà di ricordarlo. Nella filmografia del regista di Burbank, Pee-wee’s Big Adventure non è sicuramente tra i titoli memorabili, anche se in sé racchiude molto di ciò che Burton saprà sviluppare e raccontare nelle opere successive. 

Danny Elfman


 
Buio. Prima che si vedano le prime immagini del film, prima ancora che venga mostrato il logo della Warner Bros., si sentono le note della colonna sonora di Danny Elfman. Significativo se si pensa all’importanza che il compositore avrà lungo la filmografia del regista, per il quale firmerà le colonne sonore più belle, tra cui senza dubbio spiccano quelle di Edward mani di forbice, Nightmare Before Christmas (in cui presterà anche la voce a Jack Skellington), Batman  e La sposa cadavere. Lo stile diventerà inconfondibile. 

«Guardare i film di Fellini e di Bava provoca in me uno stato di sogno. Sebbene siano molto diversi tra loro, mi danno entrambi una condizione onirica molto viva».

 
Il film, infatti, si apre con un sogno: una sequenza, in cui il protagonista partecipa al Tour de France in sella alla sua bici di città, vincendo addirittura. Sulle spalle, il numero 0, che mostra già come Pee-wee sia il primo degli outsider della filmografia burtoniana: emarginato, freak, eccentrico, unico. Un eterno bambino che si sveglia saltando sul letto, che fa i capricci per una bicicletta e che si rifiuta di crescere, ignorando (o fuggendo direttamente) le attenzoni sentimentali di Dottie. Per lui è tutto un gioco, a partire dalla colazione, portata sulla tavola grazie a un sistema tecnologico che tanto ricorda le invenzioni che si vedranno in Edward mani di forbice: una colazione mai mangiata, dopo un dialogo con il bacon nel suo piatto. Del resto, anche la sua casa sembra essere uscita da un sogno: un’esplosione di colore nel grigiore generale del suo quartiere. La prima sequenza non è l’unica onirica, tutte le avventure vissute da Pee-wee sembrano provenire da un sogno, anche se lui le ha vissute realmente, pur non essendo tutte verosimili, ma capaci di mostrare tutto il talento visionario di Burton: tra questi spicca sicuramente l’incontro inquietante con Large Marge, con il volto realizzato in stop-motion, tecnica d’animazione molto cara al regista. 

«A quel punto ero stanco della Disney».

 
Il rapporto tra Tim Burton e la Disney è piuttosto complicato: diplomato alla Cal Arts (in una classe che condivideva, tra gli altri, con John Lasseter, Andrew Stanton, Pete Docter, Brad Bird, Rob Minkoff, Brenda Chapman, Joe Ranft e Chris Buck), dopo aver realizzato opere estremamente personali come Vincent o Frankenweenie, sente che l’ambiente disneyano non è incline alla sua anima cupa e tormentata. Quando suona la sveglia di Pee-wee, lui si alza, infila le sue pantofole a forma di coniglio e, al limite tra omaggio e provocazione, sul tappetino ai piedi del letto si può scorgere l’immagine di Bambi. Che poco dopo viene ripetutamente calpestato dal protagonista. Il rapporto con la Disney nel corso degli anni è poi stato ricucito: Alice in Wonderland, il remake di Frankenweenie e il live action di Dumbo ne sono una conferma. 

Zucche, scheletri e clown


 
In Pee-wee’s Big Adventure si possono trovare anche personaggi che si sono già incontrati (o che si incontreranno) nella galleria estetica di Burton. Il cagnolino di Pee-wee si chiama Speck, un nome che per consonanza non può non ricordare Sparky, il protagonista di Frankenweenie, ma non è l’unico. Mentre scende a far colazione, sul muro alle spalle della pertica si può scorgere una zucca di halloween: l’iconico Jack Skellington è presente, anche se non ancora nella sua forma completa e inconfodibile. E se tra le maschere nel negozio di stranezze si può notare anche Batman, in un film di Burton non può mancare un clown, che lo osserva inquietante mentre lega la bicicletta, che dopo poco gli verrà rubata: da Joker al circo di Big Fish, passando per gli scagnozzi del Pinguino, ma anche in Dumbo, il regista li ha spesso inseriti nei suoi film, pur avendo dichiarato: «Non mi piacciono i clown perché mi fanno paura». Naturalmente non può mancare un omaggio a Edward D. Wood Junior, sul quale poi realizzerà il biopic Ed Wood: nella splendida sequenza dell’inseguimento negli studios Pee-wee finisce su un set di guerra di un film di serie Z, i film con cui Burton è cresciuto, i film di Ed Wood, che lui ha sempre amato.

Per i capolavori ci sarà tempo, ma a 26 anni Tim Burton aveva già iniziato a a raccontare il suo universo estetico, visionario ed espressionista. Sin dai dettagli, come la spirale ipnotica sulla ruota di una bicicletta rossa rubata.

Lorenzo Bianchi

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