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Quentin Tarantino conquista la Festa del Cinema di Roma: scrittura contro regia, il lavoro con gli attori e il rapporto con Ennio Morricone
La sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma si era aperta in grande stile lo scorso 15 ottobre con Jessica Chastain, ma la giornata più attesa è stata senza dubbio quella di ieri, martedì 19 ottobre, con Quentin Tarantino sul red carpet. 

Regista e sceneggiatore di culto, Tarantino ha saputo rivoluzionare la settima arte intervenendo, con modalità del tutto inedite e sicuramente innovative, sull’intreccio della storia, sconvolgendo sistematicamente la tradizionale linearità del racconto. Il successo arriva sin dal suo esordio con Le iene, prosegue con Jackie Brown, Kill Bill vol. 1, Kill Bill vol. 2, Bastardi senza gloria e arriva fino al suo ultimo lavoro, C’era una volta a... Hollywood. Le sceneggiature originali di Pulp Fiction e Django Unchained gli sono valse due Oscar. La Festa del Cinema ha deciso di celebrare il genio di Quentin Tarantino con il Premio alla Carriera e con un Incontro Ravvicinato che lo ha visto dialogare con il pubblico della Festa. 


Qual è il primo film che hai visto? Il primo film che ricordo di aver visto è un film inglese con Richard Johnson, uno spy movie degli anni '60. Avevo circa 5 anni, non ricordo molto del film ma ricordo un episodio preciso: si tratta di una scena un po’ sadomaso perché c’è una persona rapita e tenuta prigioniera, la parte politico sessuale mi sfuggì completamente. Non mi ricordavo che film fosse, solo che due ragazzi rapivano e legavano un tizio. Quando ho iniziato a collezionare film, ho comprato poi questo titolo e l’ho rivisto. Arrivato alla scena in questione l'ho riconosciuto, ricordavo anche alcune azioni di Johnson.

Ti senti più sceneggiatore o più regista? Non so se sono uno sceneggiatore che dirige o un regista che scrive. Forse sono entrambe le cose. Sin dall’inizio ho avuto un’opinione piuttosto alta di me stesso, soprattutto per la capacità di scrittura dei miei dialoghi. All’inizio quindi pensavo di essere uno sceneggiatore. Poi però mi sono messo al lavoro dietro la macchina da presa e penso di essere un bravo regista a catturare e mettere in scena ciò che lo sceneggiatore scrive.

Quando scrivi le sceneggiature pensi già prima agli attori? Soprattutto nel caso di Jackie Brown No, per quel film non avevo nessuno in testa. De Niro, ad esempio, si è palesato a sorpresa. È un processo che nasce, cresce e si sviluppa da solo ma di base no, sono concentrato sul foglio bianco e le battute. A volte scrivo comunque con in mente qualcuno, ma il più delle volte ho in mente solo il personaggio. Se scrivo per qualcuno, deve essere un attore che già conosco. Ad esempio, il risultato di Landa per Bastardi senza gloria non sarebbe stato così articolato e ricco se avessi prima pensato a un attore. Mentre scrivevo, mi accorgevo che Landa avrebbe dovuto essere un cattivone capace di parlare molte lingue perché è un genio. Quindi, arrivato al termine ho pensato che nessuno avrebbe potuto farlo perché nessuno parla tutte quelle lingue eccetto Waltz. Quindi Landa non è un personaggio limitato perché ho lasciato tutta la libertà alla pagine e poi ho trovato lui. Tuttavia, quando ho scritto Django, ho richiamato Waltz perché volevo ripetere la collaborazione. Mentre scrivevo stavo già pensando a lui e ho improntato il personaggio sulle sue caratteristiche. Lo stesso succede anche con Samuel L. Jackson. Conosco bene il suo timbro, so dove può portare il film e lo modello di conseguenza. 


Ho detto di aver recitato nel film Zombi di Romero perché quando la gang di motociclisti entra in scena c’è un tizio che un po’ mi somiglia. Dovevo farlo perché se vuoi iniziare a far parte di questo mondo, qualcosa devi scrivere di aver fatto. Successivamente è capitato che Romero mi contattasse per chiedermi se ero pronto per interpretare un personaggio umano in un suo altro film sempre di zombi e ho accettato subito, così mi sono un po’ rifatto della bugia iniziale.

Qual è il tuo film preferito e perché? Il buono, il brutto, il cattivo è il mio film preferito di sempre. Non so dirti perché lo amo così tanto. Semplicemente lo è. Non trovo nulla di meglio. Sul set, quando voglio fare un primissimo piano sugli occhi, lo chiamo SERGIO (in onore di Leone), tutti coloro che lavorano con me ormai lo sanno. 

Quando hai deciso che saresti diventato regista? C’è voluto un po’, non è stata una decisione presa alla leggera. Non appena ho capito cosa fosse e chi fosse un regista, ho capito che quella era la mia strada. Da ragazzino vedevo gli attori ed ero affascinato dal mondo del cinema, volevo farne parte. Però a me interessava il cinema, il film. Anche quando volevo fare l’attore, per me il vero eroe era il regista non l’attore. Iniziando a studiare recitazione, mi trovai dei compagni che amavano molto meno di me il cinema. A me interessava il cinema, a loro interessava loro stessi. Io amo così tanto il cinema che ho deciso che i miei film li avrei fatti io.

C’era una volta a Hollywood è una favola immaginaria, questo il motivo per cui mettiamo il titolo alla fine. Così il pubblico, dopo il cambio storico che avviene alla fine, capisce che è davvero una favola. Solo alla fine il titolo si rivela veritiero. Tutti conoscono il titolo ma nessuno ci fa caso.


Su Django un bicchiere si è frantumato in mille pezzi e ha tagliato la mano di Leo. Tutti abbiamo trattenuto il fiato aspettando che lui reagisse al tutto. Invece lui per ben due minuti gestisce perfettamente la cosa usando il sangue durante il ciak. Qualcosa di straordinario. Non avevo mai visto nulla di simile.

Ti è mai capitato di scrivere un ruolo per un attore o un’attrice che poi l’interprete ha di gran lunga travisato portandolo da qualche altra parte? Si può arricchire il film via via che si gira grazie alle qualità degli attori. Non ho mai sforato troppo rispetto la sceneggiatura. Magari qualche piccola differenza proprio perché l’attore dà un contributo interessante aggiustando il tiro. Prendiamo l’esempio di Bill. Mi immaginavo Warren Beatty, lo volevo come Bond cattivo. Poi per una serie di motivi Warren non era disponibile e ho scelto David Carradine perché in quel momento stavo leggendo la sua biografia. Me lo immaginavo bene e così ho adattato il personaggio a lui. Originariamente però era davvero diverso. 

Ci parli della tua collaborazione con Ennio Morricone? Per me è stato un sogno. Morricone è il mio compositore preferito. Non intendo solo di colonne sonore, ma proprio nel senso lato del termine. Quando feci Hateful Eight pensavo che il film avrebbe dovuto avere uno score originale. Io di solito scelgo le musiche che adoro, qui invece volevo qualcosa di nuovo pensato apposta. Tempo prima lui mi aveva detto che sarebbe stato disponibile per me, quando avrei deciso di usare uno score originale. Quindi l’occasione è stata quella. Se lui avesse detto di no, avrei fatto come al solito e scelto brani già editati. Ho fatto tradurre la sceneggiatura in italiano per Morricone. Arrivo a Roma per incontrarlo con sua moglie Maria. Lui mi chiede quando avrei iniziato a girare il nuovo film ma io gli dissi che lo avevamo già finito, avevo bisogno della colonna sonora perché eravamo in fase finale. Lui disse che non aveva capito, di essere stato informato male e che non aveva tempo per me. Ci rimasi male ma lo accettai. Lui però a quel punto disse che aveva un’intuizione che poteva sviluppare. Non una colonna sonora intera, ma qualcosina. Aveva in mente un tema principale che, variandolo un po’, poteva arrivare a una decina di minuti. La sera dopo c’era la cerimonia dei David. Lì Ennio si avvicinò e disse che aveva delle altre idee, stava creando altro e quindi poteva arrivare a 40 minuti. Inoltre aveva dei brani scritti per un film di Carpenter ma non usati e quindi abbiamo creato uno score originale. Così è andata. Ennio Morricone è stato un vero gigante. Solo questo posso dire.


Come hai scoperti i cineasti italiani di serie B e cosa ti piace di loro in particolare? Ho avuto la fortuna di crescere negli anni '70 e i film italiani in quella decade si rifacevano moltissimo al cinema di genere. Mi sono sempre piaciuti, mi divertivano. Secondo me, quando i registi italiani sfruttavano le tendenze del genere, lo facevano meglio dei registi americani. Questo perché erano tutte pellicole bigger than life, si spingeva sempre oltre: violenza, sesso, tutto andava oltre le righe.

Hai mai pensato di girare un film in Italia, magari a Cinecittà? Mi piacerebbe da matti. Sia per me che per mia moglie. Si tratterebbe di un’esperienza straordinaria ma ci vuole la storia giusta. Sto lavorando a qualcosa, non dico che sarà il mio prossimo film, ma qualcosa, in cui vorrei inserire un momento tipicamente italiano in stile spaghetti western in cui c’è un gruppo di personaggi che parlano lingue diversissime tra loro e l’unica maniera per dirigerli sarebbe aspettare che l’interprete prima finisca la sua battuta.

A cura di Simone Soranna

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