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Il cinema multiforme di Denis Villeneuve, dal minimalismo alla fantascienza arthouse
Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico canadese, Denis Villeneuve è tra i nomi di spicco del panorama cinematografico mainstream contemporaneo, in virtù di una traiettoria artistica che ha saputo abbracciare generi diversi e suggestioni diverse sulla base di un assoluto controllo della messa in scena.

Autore eclettico, classe 1967, Villeneuve ha sempre saputo cogliere con attenzione le potenzialità di alcuni modelli di riferimento già consolidati, guardando, ad esempio, alle inusuali dinamiche del cinema indie, alla tensione espressive del thriller psicologico e alla sci-fi "filosofica". Muovendosi ad ampio raggio all'interno di generi così diversi tra loro, Villeneuve ha faticato, nel corso degli anni, a ritagliarsi una posizione ben definita in termini di identità autoriale, ma una cosa è certa: alla base del suo lavoro, che si parli di minimalismo o di spettacolarità ad altissimo budget, c'è sempre una profonda ricerca visiva volta a immergere lo spettatore in un'avvolgente atmosfera curata in ogni minimo dettaglio. La sua è una poetica estetizzante nel senso più nobile del termine, a volte fredda dal punto di vista emotivo, che diventa vincente quando guarda all'essenza del cinema.

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Dopo aver esordito nel 1998 con lo strambo e curiosissimo dramma sentimentale Un 32 août sur terre, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes, Denis Villeneuve ha realizzato la favola acida e amara Maelström (2000), presentata nella sezione Panorama al Festival di Berlino (dove ha vinto il Premio FIPRESCI). In entrambi i film si sente il peso di un autocompiacimento a volte fastidioso, ma qualche spunto interessante non manca. È con il terzo lungometraggio, Polytechnique (2009), che il cinema di Villeneuve inizia ad assumere forma compiuta. Il massacro dell'École Polytechnique di Montréal, avvenuto il 6 Dicembre 1989, visto attraverso le prospettive di tre personaggi diversi: questa la base narrativa su cui il regista canadese costruisce un tragico affresco in bianco e nero tutt'altro che asettico, a metà tra Elephant (2003) di Gus Van Sant e Bowling a Columbine (2002) di Michael Moore. Oscillando tra essenzialità e tendenza alla spettacolarizzazione, tanto da sfiorare il manierismo, il film diventa quasi uno studio sul linguaggio cinematografico, tra divagazioni audiovisive e studiatissime trovate a effetto. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes.



Con La donna che canta (2010), Villeneuve compie il definitivo salto di qualità realizzando uno dei suoi film migliori. Un dramma potente e stilisticamente molto controllato, nel quale il regista dà l'idea di saper bene come unire al meglio la levigatezza dell'impianto formale, costruito secondo una precisione tanto feroce quanto impeccabile, e squarci di tensione drammatica. Un'opera che costruisce i suoi obiettivi in maniera netta e lineare e li mette a segno uno a uno, coniugando spessore autoriale e spaccato storico-sociale, incursioni profonde nella storia recente della Palestina e affresco umano a tutto tondo. La sfrontatezza della messa in scena si sposa qui perfettamente con la dimensione tragica della storia, anche laddove le immagini si caricano di pathos in maniera esponenziale.

A partire da un modello letterario non di poco conto, vale a dire il premio Nobel José Saramago e il suo romanzo L'uomo duplicato (2002), con Enemy (2013) Denis Villeneuve firma un film che gioca in maniera fin troppo eloquente e sfacciata col sempiterno tema del doppio, declinandolo in forme suggestive e oblique. Il risultato è un'ambigua parabola psicanalitica irrisolta ma ricca di suggestione, con protagonista un ottimo Jake Gyllenhaal, perfetto come figura paranoica segnata da un profondo disagio interiore. Finale da brivido, diventato già cult. Sempre del 2013 è Prisoners, primo film americano del regista canadese. Un dramma ombroso, giocato su corde tragiche piuttosto tese ed estreme, che plasma in maniera autonoma e originale i canoni psicologici e le dinamiche narrative, alzando continuamente la posta in gioco e lavorando sull'attesa dello spettatore. Villeneuve è indubbiamente un regista capace di far propri gli elementi foschi insiti nelle proprie storie e di volgerli a suo favore, trasponendo vicende apparentemente ordinarie con cupezza calcolata e facendo leva sulle proprie ottime capacità di direttore d'attori e di regista d'ambienti. Magistrale fotografia di Roger Deakins e intense performance di Jake Gyllenhaal e Hugh Jackman.



Forte di una ormai spiccata padronanza del mezzo cinematografico, Villeneuve con Sicario (2015), presentato in concorso a Cannes, costruisce un action ad alta tensione, adrenalinico e dotata di ottimo ritmo, anche grazie agli ottimi tempi di montaggio e al senso plastico nella gestione dello spazio. Manca un guizzo in termini di scrittura, ma la capacità di Villeneuve di far "parlare" le immagini è fuori discussione. Dell'anno successivo è invece Arrival (2016), che segna l'approdo di Villeneuve alla fantascienza. Un film che rilegge il classico in chiave contemporanea, attraverso una vicenda incentrata sulla forza della comunicazione, il desiderio di conoscenza e la capacità di credere in un futuro migliore. Il regista canadese lavora sapientemente con il segno cinematografico più puro, dando rilievo assoluto a suoni e immagini, nell'ambizioso tentativo di mostrare ciò che sfugge alla percezione umana. Centrale la figura profondamente "umana" di Amy Adams, donna salvifica simbolo della fertilità femminile, contrapposta a quella "scientifica" di Jeremy Renner. A tratti ridondante e ingenuo, soprattutto nel finale, ma capace di parlare al cuore.

Ma la svolta per Villeneuve arriva nel 2017 con Blade Runner 2049, una delle sfide cinematografiche più coraggiose del nuovo millennio, vinta su tutti i fronti. Un sequel che mantiene intatto il fascino cupo e fatalista del film precedente, riuscendo nel non facile compito di aggiornare un immaginario iconico per presentarsi come un progetto moderno e con un forte timbro contemporaneo, lontano da una semplice operazione-nostalgia. Gli scenari metropolitani, bui e piovosi, squarciati dalle luci al neon, lasciano spazio anche alla luce pura e semplice, oltre che a paesaggi lunari carichi di significati metaforici, e i sottotesti filosofici e religiosi sull'ossessione verso la creazione (divina) si arricchiscono di nuove letture sul confine tra reale e virtuale, analogico e digitale. Questo è il cuore doloroso di un film che si inoltra anche nei territori dell'affettività e del sentimento, con passo fermo e quasi solenne, perfettamente in linea con la figura ieratica del protagonista K, magnificamente interpretato da Ryan Gosling. Fondamentale il contributo della fotografia di Roger Deakins e della scenografia di Dennis Gassner.



E poi è arrivato il tanto atteso Dune. Impossibile imbastire un'analisi del film senza prendere in considerazione il testo letterario di partenza e l'illustre quanto scombinato precedente cinematografico del 1984: qui il nostro approfondomento sulla sfida ai confini dell'universo conosciuto tra Lynch e Villeneuve.

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