Dodici anni dopo il ritiro dalle scene, negli anni feroci dell'Italia a cavallo tra la fine della Grande Guerra e l’imminente ascesa del fascismo, la leggendaria e “Divina” Eleonora Duse (Valeria Bruni Tedeschi) sente il richiamo irresistibile di tornare là dove la sua vita è iniziata: sul palcoscenico.

«Il teatro è morto ma io sono viva». È un grido disperato quello con cui Eleonora Duse tenta di liberarsi dal presagio di morte che aleggia costantemente nelle immagini di cui è protagonista. A tre anni da Le vele scarlatte (2022), Pietro Marcello dedica alla Divina un ritratto crepuscolare che ripercorre gli ultimi tormentati anni della sua vita. Con un’operazione che per certi aspetti (la ricerca ostinata e allucinata di un’ultima performance per salutare definitivamente la vita) ricorda quella realizzata da Pablo Larrain con Maria (2024), il regista casertano orchestra la sua consueta sinfonia di immagini di finzione intrecciate a materiali d’archivio colorizzati (meno utilizzati rispetto al passato), scegliendo di raccontare non tanto la storia, quanto l’anima di Duse, catturandola in un’epoca di profondi sconvolgimenti. Siamo a cavallo tra la fine della Grande Guerra e l’imminente ascesa del fascismo, uno degli snodi fondamentali di tutto il Novecento italiano: un periodo di transizione tra due mondi, sospeso tra le ceneri del passato e i fantasmi neri del futuro. La guerra ha cambiato tutto, l’Italia vuole correre e così Marcello inserisce numerose sequenze d’archivio di treni - macchinari che, insieme ad automobili e aeroplani, incarnano la velocità del progresso ma rimandano anche alla neonata macchina-cinema, che proprio in quegli anni, sviluppa definitivamente un proprio linguaggio istituzionalizzato e si prepara a scalzare il teatro come principale forma di intrattenimento di massa. Anche Duse vorrebbe andare avanti, abbracciare la vita che corre ma conosce solo il palcoscenico come spazio di verità e di resistenza, un luogo che la riconduce inesorabilmente lontano dalla vita presente, indietro nel tempo. Duse rappresenta l’anima di quel passato e così lo è il cinema di Pietro Marcello, una misteriosa e affascinate creatura museale, riflesso di un mondo che non esiste più ma che, per qualche ora, si rianima e prende vita.
L’anima di Duse prende corpo in una Valeria Bruni Tedeschi straordinaria, il cui volto, continuamente indagato dalla macchina da presa, restituisce tutta l’intensità emotiva che solo l’attrice sa sprigionare, sequenza dopo sequenza, pur correndo il rischio di vampirizzare il personaggio interpretato. Convince anche il D’Annunzio di Fausto Russo Alesi (forse l’unico a tenere testa alla Tedeschi), epigone di un Icaro che ha osato troppo, senza aver avuto abbastanza fiducia nella poesia per realizzare la propria rivoluzione. Non tutto funziona, però: il fascino crepuscolare che racchiudono le immagini del cinema del regista di Martin Eden (2019) resta indiscutibile ma, col passare dei minuti, l’impressione è che Marcello calchi eccessivamente la mano e alcuni passaggi risultano, quindi, eccessivi e ridondanti. La resa complessiva è comunque riuscita: non lasciano indifferenti il coraggio e l’abnegazione di Marcello nel voler proseguire con un cinema anacronistico, “fuori dal tempo”, eppure capace di immergere lo spettatore per qualche ora in un immaginifico mondo passato, costantemente sospeso tra memoria e incanto. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025.


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