Enzo (Eloy Pohu) è un giovane de La Ciotat che, pur venendo da un'amorevole famiglia borghese, eccellendo negli studi e avendo la fidanzata, ha preferito isolarsi e cominciare a lavorare come apprendista muratore. In cantiere si invaghisce di un collega più grande, l'ucraino Vlad (Maksym Slivinskyi), rifugiato in Francia a causa della guerra.

Enzo è un film che parla di paternità e lasciti generazionali fin dalla sua genesi: è stato infatti Robin Campillo, già regista di 120 battiti al minuto (Grand Prix al Festival di Cannes 2017), nonché montatore del cineasta francese suo connazionale Laurent Cantet (Palma d’oro 2008 con La classe – Entre les murs) a ereditare l’ultimo progetto del suo cineasta e mentore, scomparso prematuramente nell’aprile 2024, per portarlo a compimento e far sì che il lungometraggio vedesse la luce, per quanto postumo. Un passaggio di testimone generazionale segnato dal lutto e dalla perdita, che trova riscontro in un film che parla anch’esso di rapporti recisi tra i padri e i figli, in cui il tema dell’ascolto delle nuove generazioni si scontra con l’inconciliabilità tra un ricco e asettico coté borghese e delle più fragili, ma anche più aspre e ruvide, istanze e rivendicazioni proletarie. Quello che potrebbe sembrare sterile manicheismo novecentesco è però riscattato da una delicatezza di tono e di sguardo che sa trovare le vie della dolcezza, dell’ascolto e della più tenue pacatezza anche a partire dalle contrapposizioni più schematiche, come quella tra la lussuosa villa su più piani con piscina del “pater doloroso” di Enzo, interpretato da un dolente Pierfrancesco Favino, molto a suo agio e misurato anche nel recitare in francese e le cave accarezzate da una luce diafana e quasi opaca in cui lavora Enzo, il cui feroce coming of age sarà chiamato anche a fare i conti con le spinte eversive e con le correnti talvolta impervie della passione e del desiderio. Sebbene il risultato finale sia tutt’altro che organico, e piuttosto scisso tra il realismo sociale di radicale nettezza caro a Cantet e la sensualità vivida, corporea e quasi abbacinante più propria di Campillo, l’operazione - seppur disorganica e giocoforza postuma - si distingue per la portata struggente e di notevole rilevanza sociopolitica della vicenda narrata, specie in rapporto a riflessioni che implicano il passaggio di testimone, dolente e complesso, tra due generazioni, con implicazioni interclassiste relative al crollo di certezze ideologiche del presente. Ambientato La Ciotat, cittadina nei pressi di Marsiglia, dove la storia del cinema partì grazie ai fratelli Auguste e Louis Lumière e in cui lo stesso Cantet aveva ambientato il suo L’atelier (2017). Élodie Bouchez interpreta la madre di Enzo. Tra i produttori anche Mari-Ange Luciani, che nello stesso ruolo aveva già firmato Anatomia di una caduta (2023) di Justine Triet.






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