Simona (Anna Foglietta), mamma single quarantenne, si sente terribilmente inadeguata al ruolo di genitore. L’organizzazione della festa per gli otto anni del figlio Filippo (Nicolò Costa) porterà a galla tutte le sue insicurezze e quelle del gruppo di genitori dei bambini della classe del figlio.

Commedia corale acidula e ambientata praticamente tutta all’interno di una festa di compleanno vissuta dalla prospettiva dei più piccoli e da quella dei genitori, succubi di disagi e inadeguatezze disparate e senza ritorno, l’esordio alla regia di Laura Chiossone suona come un’ulteriore e non troppo necessaria costola del successo di Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese. Anche in questo caso, infatti, ci si trova di fronte a una manciata di adulti vessati da notifiche su Whatsapp e sbandate dovute a una maturità tutt’altro che semplice e conciliata, con un gioco di caratteri che spazia dalla coppia untuosa e inquietante, dalle smanie biologiche, ecologiste e naturiste (Paolo Calabresi e Lucia Mascino) all’etichetta stereotipata della “mamma lesbica” (Elena Radonicich), passando per la madre solitaria nella doppia versione frigida e sessualmente disinibita (rispettivamente Anna Foglietta e Marina Rocco). Una sarabanda di ipocrisie e stereotipi che propone gustosi momenti di ironia e stoccate ben assestate accanto a tanti, troppi compiacimenti, che alternano momenti eccessivamente sopra le righe a frangenti che precipitano maldestramente e senza troppo equilibrio e senso di misura nella farsa d’accumulo. Con queste premesse, più che lo smarrimento esistenziale, a emergere è una scrittura sfasata e malferma, che una regia ammiccante e a tratti ambiziosa non riesce del tutto a riscattare. Rivedibile, in particolare, il finale, una briosa ma gratuita incursione conclusiva nel musical per le vie di Milano. Convincente e apprezzabile, complessivamente, il tentativo di raccontare le falsità e i mascheramenti dei personaggi attraverso un discorso sull’identità sessuale infantile, così come il tappeto sonoro tambureggiante, ma il disegno d’insieme fatica a convincere e annega, a tratti, nello scult. Una scena, in questo senso, appare particolarmente memorabile: Paolo Calabresi, che già di suo si prodiga a citare I quattrocento colpi (1959) e Il ragazzo selvaggio (1970) di Truffaut e Maladie d’amour di Jacques Deray, che nel corso di un amplesso furtivo provvede a urlare, all’acme del piacere, i nomi di un novero di registi giapponesi come Takeshi Kitano, Nagisa Oshima, Hayao Miyazaki e…Hirokazu Kore-Eda.

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