Meshes of the Afternoon
Meshes of the Afternoon
Durata
14
Formato
Regista
Un fiore calato dal cielo da una mano femminile. Una donna lo raccoglie, lo annusa e rientra a casa. Si assopisce e il suo Io onirico insegue vanamente una misteriosa figura incappucciata con in mano il fiore.
Questo è solo l'inizio di un turbine psicanalitico di simboli, doppi, oggetti quotidiani che si trasformano in misteri, e misteri che sono però cupamente eloquenti. Il primo cortometraggio di Maya Deren - regista ucraina naturalizzata statunitense, destinata a rimanere «la voce più originale e potente del cinema sperimentale americano» (Scorsese - nientemeno - dixit) - è già un "film-Mondo". Attraverso un uso innovativo di tecniche, come esposizione multipla e jump-cut, la regista ci immerge in un mondo onirico e surreale dove lo straniamento spaziale e temporale, la potenza poetica e allusiva dei simboli e il sagace utilizzo del proprio corpo attoriale come profluvio di gesti vitali e strozzati allo stesso tempo diventa la perfetta e indescrivibile concretizzazione del manifesto cinematografico femminista per eccellenza. La Morte vera e propria (che "in carne e ossa" anticipa iconograficamente Il settimo sigillo) come fuga disperata dalla morte dell'anima del matrimonio (e la relativa routine senza fine) borghese. Il Doppio come vertigine che nulla può al cospetto della riduzione del proprio Femminile a oggetto maschile prima de La donna che visse due volte. La Musica come sedazione. Un Coltello come salvezza. Dopo Bunuel, prima di Lynch. Qua e là (la sé stessa che in casa calpesta erba e terreni; il marito che crolla in pezzi di vetro nel Mare) è già proiettata, insieme alla sua straordinaria eloquenza gestuale e corporea, ad alcune sue mirabili opere future: il doloroso ma vitale ricongiungimento all'Essenza (At Land, 1944), l'espressione sublime della Libertà del corpo (Ritual in Transfigured Time, 1946), per arrivare a sentire (e danzare con) l'universo (The Very Eye of Night, 1958). Il risultato è un film bellissimo, affascinante e di grande suggestione, ancora oggi capace di far nascere numerose interpretazioni.
Questo è solo l'inizio di un turbine psicanalitico di simboli, doppi, oggetti quotidiani che si trasformano in misteri, e misteri che sono però cupamente eloquenti. Il primo cortometraggio di Maya Deren - regista ucraina naturalizzata statunitense, destinata a rimanere «la voce più originale e potente del cinema sperimentale americano» (Scorsese - nientemeno - dixit) - è già un "film-Mondo". Attraverso un uso innovativo di tecniche, come esposizione multipla e jump-cut, la regista ci immerge in un mondo onirico e surreale dove lo straniamento spaziale e temporale, la potenza poetica e allusiva dei simboli e il sagace utilizzo del proprio corpo attoriale come profluvio di gesti vitali e strozzati allo stesso tempo diventa la perfetta e indescrivibile concretizzazione del manifesto cinematografico femminista per eccellenza. La Morte vera e propria (che "in carne e ossa" anticipa iconograficamente Il settimo sigillo) come fuga disperata dalla morte dell'anima del matrimonio (e la relativa routine senza fine) borghese. Il Doppio come vertigine che nulla può al cospetto della riduzione del proprio Femminile a oggetto maschile prima de La donna che visse due volte. La Musica come sedazione. Un Coltello come salvezza. Dopo Bunuel, prima di Lynch. Qua e là (la sé stessa che in casa calpesta erba e terreni; il marito che crolla in pezzi di vetro nel Mare) è già proiettata, insieme alla sua straordinaria eloquenza gestuale e corporea, ad alcune sue mirabili opere future: il doloroso ma vitale ricongiungimento all'Essenza (At Land, 1944), l'espressione sublime della Libertà del corpo (Ritual in Transfigured Time, 1946), per arrivare a sentire (e danzare con) l'universo (The Very Eye of Night, 1958). Il risultato è un film bellissimo, affascinante e di grande suggestione, ancora oggi capace di far nascere numerose interpretazioni.