Oro verde – C’era una volta in Colombia

Pájaros de verano

Durata

125

Formato

Il racconto della metamorfosi di un’intera comunità, che dalla pastorizia finisce col dedicarsi al narcotraffico in Colombia, a partire da un nucleo di congiunti e parenti ben delineato: una famiglia indigena wayùu (Indios nativi americani), che sperimenterà sulla sua pelle un arricchimento tanto rapido e soddisfacente quanto ancestrale e tragico, tra inesorabile avidità di denaro e smanie autodistruttive.



Ciro Guerra e Cristina Gallego risalgono alle origini storiche e archetipiche del narcotraffico in questo film potente e dal sapore arcaico, che poggia su una messa in scena di buona risonanza formale e dal discreto impatto spettacolare. Fin dal titolo, “uccelli di passaggio”, il film fa riferimento a predatori che mutano luogo e si spostano alla bisogna, mantenendo però inalterate le proprie esigenze radicate e intrinseche, schiave di una coazione a ripetere dal sapore mortifero che non può che portare, inevitabilmente, a vicoli ciechi di difficile risoluzione. Diviso in capitoli - una soluzione che conferisce un ulteriore senso di monca precarietà - si tratta di un’operazione tanto preziosa quanto cerebrale e forse eccessivamente pensata a tavolino, che prova a fondere radici sudiste del mondo e del malaffare con una riflessione ad ampio raggio sul capitalismo. Fermandosi tuttavia molto prima, alla mera, ma tutt’altro che profonda e sfaccettata, incursione antropologica. La natura predatoria dell’accumulo di denaro, nelle sue strutture interne, non viene infatti mai scalfita e la sensazione è quella di uno sguardo forzatamente autoriale, con la pretesa di coniugare le esigenze drammaturgiche di film come Il padrino (1972) ai nuovi linguaggi seriali di oggetti industriali come Narcos, El Chapo e simili. Ragguardevoli, in compenso, diverse sequenze, come quella devastante degli spari da fermo, all’insegna della fissità più agghiacciante, per non parlare della ferocia serafica di tanti omicidi, in cui la violenza esplode sullo schermo sorda e afasica, con tanto di colpi rombanti e millimetrici, secchi e impietosi. Un film diviso tra ruralità premoderna e progresso esasperato, selvaggio e drogato, nel quale però l’affresco complessivo raccoglie molto meno di quanto seminato. Indubbiamente prolisso, ma anche matriarcale, dilatato, fascinoso, disperato. Presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2018 e in Piazza Grande al Locarno Festival dello stesso anno.
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