Due episodi paralleli: nel primo, il figlio di un imprenditore tedesco (Jean-Pierre Lèaud) si disinteressa dell'azienda di famiglia e ha rapporti carnali con dei maiali; nel secondo, in una landa desolata e apocalittica, un misterioso uomo (Pierre Clémenti) pratica il cannibalismo, sino a quando non viene catturato e condannato a un pena simile a quella che lui infligge alle sue vittime.

Proseguendo sulla strada sempre più simbolica e anti-narrativa intrapresa con Uccellacci e uccellini (1966), Edipo re (1967) e Teorema (1968), Pier Paolo Pasolini partorisce l'ennesima, astratta parabola scioccante sulle brutture della borghesia occidentale, questa volta rappresentata attraverso la metafora del cannibalismo. Per il regista-scrittore non c'è più alcuna speranza, nessun valore, nessuna rivoluzione (erano i primi anni della contestazione studentesca e della nascita della sinistra-extraparlamentare) attraverso cui migliorare la condizione della vita umana: il mondo è un inferno dantesco animato da mostri, fiere e sub-umani che si divorano tra loro senza pietà. Senza dubbio coraggioso e precursore di molti temi codificati poi (con esiti ben superiori) nel capolavoro testamentario Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975), Porcile rimane tuttavia un'opera sgraziata e sopra le righe, che sconta il testardo desiderio del regista di essere provocatorio e scioccante a ogni costo. Ipertrofico, sguaiato e, in fin dei conti, innocuo. Non piacque alla critica del tempo e, ancora oggi, ha pochi estimatori.


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