Gli ultimi giorni di Pompei
Durata
181
Formato
Regista
Nella Pompei del 79 d.C. l'amore tra Glauco (Victor Varconi) e Ione (Rina De Liguoro) non solo sarà ostacolato dallo spietato sacerdote Arbace (Bernhard Goetzke), ma persino dall'eruzione del vulcano Vesuvio.
Gli ultimi giorni di Pompei è perfettamente calato nel genere cinematografico italiano più in voga negli anni del cinema muto, il peplum. Le caratteristiche principali ci sono tutte, a cominciare dalla durata smisurata della pellicola, sino alla scelta di riproporre una vicenda catastrofica che fa da cornice per un dramma d'amore. La coppia di registi formata da Gallone e Palermi lavora minuziosamente su ogni dettaglio, scegliendo sapientemente i punti macchina da cui riprendere la scena, curando nei particolari scenografie e costumi e gestendo al meglio le scene di massa. Il problema più grave di questa pellicola, però, è la sceneggiatura troppo piatta e prolissa (le tre ore di durata, oltre che insostenibili, sono immotivate) e soprattutto poco originale. Infatti la storia d'amore tra i due protagonisti ripete un modello già consolidato senza osare minimamente avventurarsi in nulla di nuovo o diverso. Il film è tratto dal celebre romanzo omonimo di Edward George Bulwer-Lytton ed è una delle trasposizioni cinematografiche più conosciute: la stessa fonte letteraria aveva già ispirato una pellicola del 1913, omonima, firmata da Mario Caserini ed Eleuterio Ridolfi.
Gli ultimi giorni di Pompei è perfettamente calato nel genere cinematografico italiano più in voga negli anni del cinema muto, il peplum. Le caratteristiche principali ci sono tutte, a cominciare dalla durata smisurata della pellicola, sino alla scelta di riproporre una vicenda catastrofica che fa da cornice per un dramma d'amore. La coppia di registi formata da Gallone e Palermi lavora minuziosamente su ogni dettaglio, scegliendo sapientemente i punti macchina da cui riprendere la scena, curando nei particolari scenografie e costumi e gestendo al meglio le scene di massa. Il problema più grave di questa pellicola, però, è la sceneggiatura troppo piatta e prolissa (le tre ore di durata, oltre che insostenibili, sono immotivate) e soprattutto poco originale. Infatti la storia d'amore tra i due protagonisti ripete un modello già consolidato senza osare minimamente avventurarsi in nulla di nuovo o diverso. Il film è tratto dal celebre romanzo omonimo di Edward George Bulwer-Lytton ed è una delle trasposizioni cinematografiche più conosciute: la stessa fonte letteraria aveva già ispirato una pellicola del 1913, omonima, firmata da Mario Caserini ed Eleuterio Ridolfi.