I migliori film italiani del 2020
06/01/2021
Quali sono stati i migliori film italiani visti nel corso del 2020 secondo la redazione di LongTake? Ecco la nostra classifica! 

10. L'INCREDIBILE STORIA DELL'ISOLA DELLE ROSE (Sidney Sibilia)

Dopo la trilogia di Smetto quando voglio, Sydney Sibilia punta a un film ancor più ambizioso, prodotto da Matteo Rovere e distribuito direttamente su Netflix. L’ambizione parte dalla bellezza del fatto di cronaca che racconta, ma anche dal tentativo (riuscito) di far diventare quella vicenda un tassello per rappresentare ciò che è stato il ’68, con i suoi sogni e le sue utopie. Grazie anche a un’ottima colonna sonora, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è godibile e appassionante, tanto che – anche se si sapesse già la conclusione di com’è andata realmente – viene comunque da fare il tifo per il sogno di Rosa e dei suoi compagni d’avventura, per la sua sfida allo Stato e per quel desiderio di libertà che nasconde, sotto sotto, la necessità di darsi una possibilità di riscatto e di mostrare ciò di cui si è capaci alla persona amata. 



9. COSA SARÀ (Francesco Bruni)

Giunto al suo quarto film da regista, lo sceneggiatore Francesco Bruni affronta di petto una storia in parte autobiografica, portando sul grande schermo una sua personale esperienza di malattia. Il protagonista, interpretato da Kim Rossi Stuart, è un evidente alter ego di Bruni, somigliante tanto nell’aspetto («Un Francesco Bruni bello», ha ironizzato il regista sulla scelta dell’interprete) quanto nella parabola personale e privata. Lo spaccato che il film propone è vitale e sincero, con alcuni slittamenti non da poco tra cinema e vita: la vera moglie di Bruni, l’attrice Raffaella Lebboroni, interpreta la dottoressa che lo segue con zelo rigoroso e intransigente nel corso del suo percorso ospedaliero e di trapianto del midollo e tale personaggio è lo specchio più diretto dell’approccio di Bruni, che cerca di velare la condizione drammatica sottesa alla storia con un piglio ironico e disincantato, proteso ad affrontare il registro del dramma con spruzzate di leggiadria e disimpegno che in più di un’occasione fanno capolino. 



8. SALVATORE - SHOEMAKER OF DREAMS (Luca Guadagnino)

Luca Guadagnino, dopo Chiamami col tuo nome e Suspiria, si concentra sulla figura di Ferragamo per raccontarne la vita in un documentario che ha però il sapore del biopic vero e proprio: il regista palermitano ha infatti ricostruito la sua vicenda in maniera tanto generosa quanto doviziosa, attingendo a piene mani agli archivi della famiglia Ferragamo e alle sue stesse riprese d’epoca e collezionando una serie di interviste a personalità della moda, dello spettacolo e anche del cinema. Salvatore – Shoemaker of Dreams non si limita infatti a intavolare un racconto sull’icona della moda italiana e mondiale, ma attraverso immagini inedite e colloqui con studiosi, docenti, stilisti, giornalisti, critici di moda e cinematografici crea un ponte fortissimo ed eloquente tra la parabola del “ciabattino irpino” e la Hollywood classica, sulla quale il doc si sofferma a più riprese esplorando il legame professionale e spesso anche privato di Ferragamo con personalità come Rodolfo Valentino e Lilian Gish, sui cui set si occupò spesso della realizzazione di scarpe. 



7. LACCI (Daniele Luchetti)

Adattamento dell’omonimo romanzo di Domenico Starnone, inserito tra i 100 migliori libri del 2017 dal New York Times, Lacci segna il ritorno di Daniele Luchetti a livelli particolarmente ambiziosi dopo diversi anni di progetti appannati e discontinui. In questo caso il regista romano, che aveva già adattato Starnone in uno dei suoi film più celebri, La scuola (1995), si cimenta con la trasposizione di un testo di pregio dal portato letterario non indifferente: un romanzo di rara sottigliezza psicologica, il cui spessore sta tutto in uno scavo misurato e sfaccettato sui temi dell'invecchiamento e dell'appassirsi del rapporto di coppia, con, come sottofondo impassibile, il rumore sordo e inesorabile del tempo che passa e lo scolorirsi della pretesa di poter avere un controllo pieno e completo sulle proprie vite. 



6. GUERRA E PACE (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti)

A quattro anni di distanza dall'ambizioso Spira mirabilis (2016), la coppia di documentaristi italiani formata da Massimo D'Anolfi e Martina Parenti torna al lavoro su un progetto sicuramente più lineare e accessibile del precedente. Guerra e pace è infatti un viaggio nella Storia attraverso le immagini che l'hanno scolpita: con uno sguardo sempre attento a cercare il connubio tra una firma autoriale ben riconoscibile e l'obiettivo di spirare la realtà nel suo accadere contaminandola il meno possibile, i registi riescono non solo a proporre un interessantissimo studio sulle dinamiche diplomatiche che stanno nel dietro le quinte di tutte le missioni militari italiane e internazionali, ma anche a firmare un sentito e appassionato omaggio al cinema qui inteso come produttore e conservatore della memoria collettiva. 



5. VOLEVO NASCONDERMI (Giorgio Diritti)

Otto anni dopo Un giorno devi andare, Giorgio Diritti firma il suo quarto lungometraggio e ritrova almeno in parte lo slancio creativo, tanto nella narrazione quanto nella messinscena, dei suoi primi due, sorprendenti lavori: Il vento fa il suo giro e L’uomo che verrà. Il regista bolognese torna alla realtà contadina che conosce bene, al dialetto e a una struttura estetica che può ricordare il cinema di Ermanno Olmi: oltre al personaggio principale, infatti, conta anche la comunità rurale che ruota attorno a lui, figure semplici che si approcciano a un uomo assolutamente fuori dal comune. Prima di tutto Volevo nascondermi è un film sui traumi del passato di un essere umano tormentato, nevrotico, animalesco nel modo di fare, che ha paura delle donne e finisce spesso in manicomio, che si vede come un “artista” e solo attraverso l’arte può raggiungere un’ancora di salvezza.



4. MI CHIAMO FRANCESCO TOTTI (Alex Infascelli)

Totti guida infatti il gioco e sembra stare lui stesso in camera, come quando si mise nel mirino di una telecamera dell’Olimpico dopo aver segnato il rigore dell’1 a 1 in un derby con gli odiati cugini laziali. Potenzialmente accreditabile come co-regista dell’operazione, Totti si conferma nel documentario un narratore di se stesso ironico, passionale e affabile, che non conosce alcuni posti di Roma perché non può girarvi liberamente («Sembra strano, ma Roma per me è in gran parte sconosciuta») e con i romani ha un legame indissolubile che Infascelli carica di una dimensione perfino religiosa, mistico-spirituale, quasi da Cristo profano e figlio redento di una città irredimibile nelle sue passioni. Il Totti del film più a Dio sembra però aderire al Destino, per il quale professa più volte dichiarazioni di fede totale, con punte però di cinismo acido, smaliziato, sornione  e tipicamente romano («Questo tempo è passato. Pure pe’ voi però»).



3. FIGLI (di Mattia Torre, regia di Giuseppe Bonito)

Figli, sceneggiato e ideato dal compianto Mattia Torre, storico autore della celebre serie Boris scomparso nel luglio del 2019 dopo una lunga malattia, è la conferma, purtroppo postuma, del talento di una delle migliori penne italiane della sua generazione. Diretto da Giuseppe Bonito, già regista di Pulce non c’è (2014), non avendo Torre fatto in tempo a dirigerlo, il film schiera nel cast Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea, interprete feticcio di Torre e già protagonista della serie tv Rai La linea verticale, in cui l’autore aveva raccontato, con delicatezza tagliente, delle sue esperienze ospedaliere successive alla diagnosi del male che l’ha poi stroncato. Figli, dal canto suo, muove invece da un monologo teatrale, sempre interpretato da Mastandrea, dal titolo I figli ti invecchiano, toccante testamento torriano a partire dal quale ha preso spunto il copione di questo lungometraggio: una commedia agrodolce in cui si respira tutto il talento di Torre nel miscelare il comico con il tragico e viceversa, tra battute fulminanti e situazioni in bilico tra risvolti paradossali e ricadute esilaranti, con a fare da collante la capacità non trascurabile di rivestire i drammi di fondo di una monumentale dose di ironia malinconica e sfrontata.



2. HAMMAMET (Gianni Amelio)

Concentrandosi su una ferita ancora aperta di Storia italiana, Gianni Amelio, autore unico del soggetto e sceneggiatore accanto ad Alberto Taraglio, ha realizzato un film biografico che si concentra quasi esclusivamente sul versante umano del protagonista Bettino Craxi (il suo nome, però, non viene mai menzionato), affrontando il funereo epilogo di uno spaccato scottante di politica nostrana senza farne un resoconto fazioso o strettamente militante. Il travaglio esangue dell'uomo, arrogante, impulsivo e falso (anche con se stesso) coincide con la frattura insanabile di un Paese al capolinea, costretto a rifondare la propria classe politica. Tra aderenza filologica alla realtà dei fatti, tanto da girare all'interno della vera dimora tunisina di Craxi e citare alcuni momenti specifici passati a memoria (come il lancio delle monetine), e volontà di tendere la mano all'immaginazione, Amelio porta a compimento un trait d'union di rara raffinatezza, tra parossistico iperrealismo, soprattutto nella mimesi fisica del protagonista, ed esaltazione della finzione cinematografica, occultando i nomi propri dei personaggi e inserendo un fittizio elemento "thriller" rappresentato da Fausto, che sembra legarsi al film d'esordio dello stesso Amelio, Colpire al cuore (1982), che affronta il tema del terrorismo nell'ottica di un rapporto contrastato tra padre e figlio. 



1. FAVOLACCE (Fabio e Damiano D'Innocenzo)

A due anni di distanza dal loro sorprendente film d'esordio (La terra dell'abbastanza), i gemelli Fabio e Damiano D'Innocenzo tornano alla regia con un lavoro ancor più convincente e incisivo. Favolacce è infatti la cartolina grottesca (ma non troppo) di una parte d’Italia sfatta e tenebrosa, in cui l'innocenza dello sguardo dei più piccoli si scontra inevitabilmente con la disillusione e la rassegnazione degli adulti. Avvalendosi di una struttura narrativa tanto semplice quanto funzionale, i registi basano il film su lunghissimi silenzi accompagnati da gesti di rara potenza scenica in grado di restituire la sensazione di un ambiente claustrofobico e stagnante, in cui i personaggi stentano a boccheggiare. La regia, ricca di trovate puntuali e indovinate nell'esteriorizzare un malessere taciuto ma covato da ognuno dei protagonisti, si incolla agli sguardi dei personaggi in una sorta di sfilata di volti e sensazioni di rara forza filmica in cui il dialogo generazionale, il senso di colpa e il coraggio di intraprendere scelte apparentemente assurde, ma probabilmente necessarie per porre fine all'incubo, sono indagati con tatto invidiabile.

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