John Carpenter: la claustrofobica poetica del cinema d’assedio
19/03/2020
In questi giorni pesanti, in cui le pareti delle nostre comode case sembrano restringersi sempre di più, inevitabilmente i nostri pensieri da cinefili corrono a uno dei maestri del cinema horror statunitense: John Carpenter. L’autore originario dello stato di New York ha proposto, fin dagli esordi, un tipo di cinema molto claustrofobico, in cui i protagonisti vengono spesso a trovarsi nella situazione di doversi difendere da una minaccia esterna. 

È questo il caso di Distretto 13 – Le brigate della morte (1976), secondo lungometraggio del regista, in cui ritroviamo tutti quelli che saranno gli stilemi che andranno a comporre la sua poetica. Film che non risparmia allo spettatore scene cruente nell’intento di muovere una sferzante critica verso l’uso della violenza, melliflua serpe che si nutre di sé stessa (non un caso che il film esca a un anno dalla conclusione della disastrosa Guerra del Vietnam). Le azioni brutali dei personaggi altro non sono che la prima tessera del domino che cade, andando a scatenare un’escalation di violenza. Il film, che per certe dinamiche e scrittura dei personaggi si rifà a Un dollaro d’onore di Howard Hawks, omaggia anche il classico romeriano La notte dei morti viventi quando, per sfuggire alla vendetta della gang, i nostri protagonisti si rifugiano all’interno di una centrale di polizia. Cinema d’assedio ad alto tasso di claustrofobia. La minaccia esterna si infrange, incurante delle perdite nelle proprie fila (più che uomini i nemici sembrano non morti: una forza ineluttabile in cui non vi è traccia dell’istinto di conservazione dell’individuo), contro la resistenza dei nostri protagonisti, andando però a distruggere quella che è l’istituzione rappresentata dalla centrale di polizia. Non è un caso che Carpenter, fautore di un cinema dal forte connotato politico, ambienti questi assedi in luoghi (sarà una chiesa in Fog, film del 1980) dalla forte impronta istituzionale, come a voler suggerire una critica verso tutte quelle sovrastrutture che dovrebbero proteggere la comunità. 


Ne Il signore del male (1987) troviamo ancora una volta i protagonisti assediati all’interno di una chiesa. Male e bene, come spesso accade nel cinema di Carpenter, si mescolano: a venir meno, in questo caso, sono le credenze sulle quali l’umanità ha basato le proprie fondamenta. La religione, in particolare, viene mano a mano fatta a pezzi (proprio come la chiesa), rivelando di basare tutto il proprio credo su delle bugie.


Analizzando Halloween – La notte delle streghe (1978), questo senso di chiusura e soffocamento viene messo in risalto fin dal magnifico piano sequenza iniziale: il giovane Michael Myers indossa la maschera di un clown, riducendo in questo modo la visibilità della soggettiva. Lo spettatore non può far altro che osservare, impotente e oppresso, la mano di Michael mentre cala il coltello sulla sorella Judith. La sequenza è di un impatto impressionante ed entra di diritto nella storia del cinema. 


In Essi vivono (1988) la sopraffazione e il senso di claustrofobia non vengono più da un luogo fisico e tangibile (la centrale di polizia o la chiesa), bensì, attraverso una società capitalistica che ingabbia e incatena l’essere umano. Le persone sono inconsapevolmente schiave di un sistema che mira ad azzerare la singola individualità con l’intento di modellare un gregge sociale, più facilmente controllabile. 


Potremmo citare anche 1997: Fuga da New York (1981) in cui è l’isola di Manhattan a diventare un carcere, oppure i manicomi de Il seme della follia (1994) e The Ward (2010) in cui è la mente stessa dei protagonisti a trasformarsi in una prigione, ma scegliamo di concludere questo approfondimento con un film che, a oggi, sembra più attuale che mai: La cosa (1982). Il claustrofobico cinema d’assedio del maestro dell’orrore trova nuova linfa nel remake del classico del 1951. Carpenter ci cala sapientemente in una situazione in cui il nemico non è più una minaccia esterna, bensì interna. Nessuno può più fidarsi dell’amico o del collega poiché il virulento seme del sospetto è stato ormai piantato nelle menti dei nostri protagonisti. «Qui tra noi c'è qualcuno che non è quello che sembra» afferma MacReady, sottolineando la difficoltà di combattere contro un avversario invisibile. Questa prigionia forzata con un nemico la cui arma principale è il mendace artificio, ha l’effetto di avvelenare le nostre menti con il sospetto: il lato peggiore dell’essere umano viene a galla portando in superficie frizioni e contrasti prima sommersi. «Perché non aspettiamo qui ancora un po', e vediamo che succede?» con queste parole ci lascia MacReady in quel magnifico finale in cui i due volti dell’America si trovano l’uno di fronte all’altro, stringendo nella morsa del dubbio gli spettatori. 


Simone Manciulli

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