Mostra di Venezia: 10 Leoni d'Oro da ricordare
28/08/2016

Dopo i 10 Leoni d’Oro da dimenticare, vi proponiamo altrettanti titoli che hanno fatto la storia, in senso decisamente positivo, della Mostra d’Arte cinematografica di Venezia. Dieci film che hanno trionfato meritatamente e hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva di cinefili e non.

Una rassegna di pellicole che è anche rassegna di grandi autori che hanno legato il loro nome a opere dall’incommensurabile valore artistico, dando ulteriore prestigio alla più antica kermesse cinematografica del mondo.

Ecco a voi, dunque, 10 Leoni d’Oro da ricordare nella storia della Mostra di Venezia:

10) La battaglia di Algeri (1966)

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Uno dei verdetti più contestati nella storia della Mostra (con tanto di protesta formale della delegazione francese presente quell’anno), ma anche una delle vittorie più meritate. Gillo Pontecorvo racconta la guerra d’indipendenza algerina con uno stile sobrio, secco e cronachistico: la messa in scena, dall’evidente taglio documentaristico, privilegia l’uso della camera a mano e punta su una fotografia sgranata che rimanda ai reportage televisivi, valorizzata da teleobiettivi a focali lunghe e da commenti fuori campo uniti a sovrimpressioni che scandiscono date ed eventi, accompagnando costantemente la narrazione come in un cinegiornale. Tre nomination all’Oscar (miglior film straniero, miglior regia, miglior sceneggiatura), mentre in Francia il film fu vietato fino al 1971.

9) Faust (2011)

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Ultima parte della tetralogia di Aleksandr Sokurov dedicata alla natura del potere. In questo caso, Faust incarna la volontà di controllo dell’intelletto attraverso una smania di conoscenza che appare implacabile, come dimostra il vagare senza sosta del protagonista (seguito da una mobilissima macchina da presa), ma che deve fare i conti con i limiti della natura umana (di cui vengono accentuati i tratti più brutali e animaleschi) e con un’infelicità che appare conseguenza ineludibile di ciascun processo di apprendimento, in quanto presa di coscienza della finitezza dell’essere umano, in barba alle sue più smisurate ambizioni. Opera magniloquente, di non sempre facilissima intelligibilità, ma sbalorditiva e decisamente appagante.

8) Città dolente (1989)

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La fermezza totale delle inquadrature di Hou Hsiao-hsien, anche se dettagliate e sfaccettate, rende il film a prima vista impenetrabile, ma si rivela assai ricco – a livello storico, politico e antropologico – per gli spettatori che hanno la pazienza di approcciarvisi più in profondità. Il flusso della narrazione è infatti rilassato e rasserenato, ma anche puntellato da scossoni e terremoti non indifferenti, che non concedono punti di riferimento e appigli di nessun genere. Eccellente è poi il modo in cui il regista riesce a far dialogare particolare e universale, costruendo una storia a misura di individuo, dove la storia dei personaggi si muove all’interno e nell’ombra della Storia con la S maiuscola. Leone d’oro a Venezia, ma colpevolmente inedito in Italia.

7) America Oggi (1993)

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Ventidue attori gravitano attorno a una tappa avanzatissima nella storia del cinema corale americano: ciò che impressiona è la capacità di costruire storie magnifiche e dinamitarde a partire da dettagli apparentemente insignificanti; lo sguardo totalizzante di Robert Altman si sposa in modo ineccepibile con lo stile acuto di Raymond Carver (il soggetto è ispirato ad alcuni racconti brevi dello scrittore americano). Con cattiveria e con un cinismo mai programmatico, Altman mostra in maniera impietosa le ceneri dello yuppismo e la sua perversa ontologia, capace di corrodere anche la borghesia più spiantata e le sue false aspirazioni.  Leone d’oro ex-aequo con Tre colori – Film blu di Krzysztof Kieślowski, Premio FIPRESCI, Premio Pasinetti e Coppa Volpi all’intero cast.

6) L’infanzia di Ivan (1962)

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Esordio nel lungometraggio di Andrej Tarkovskij, che prende ispirazione dal romanzo Ivan di Vladimir Bogomolov. Se i tocchi poetici sono tantissimi, finale compreso, Tarkovskij sottolinea costantemente che quella a cui stiamo assistendo è una storia fortemente drammatica, con al centro un bambino disposto a tutto (persino a morire) per vendicarsi di chi gli ha portato via il bene più grande: la sua famiglia. Colpisce come la macchina da presa si muova all’interno degli ambienti naturali: il fiume, i boschi e gli alberi sono inquadrati come fossero dei personaggi a tutti gli effetti, e non una semplice parte della scenografia. Leone d’oro alla Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia del 1962 ex aequo con Cronaca familiare di Valerio Zurlini.

5) La grande guerra (1959)

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Mario Monicelli sperimenta una formula che utilizzerà anche ne I compagni (1963) e ne L’armata Brancaleone (1966): ambientare la collaudata commedia nazionale durante un evento/periodo storico passato è un’idea geniale destinata a diventare un marchio di fabbrica del cinema italiano. Grande successo di pubblico e critica, a dimostrazione che la linea, seguita con personalità dal regista, non solo è coraggiosa (di fatto, questo è uno dei primi film italiani che racconta il primo conflitto mondiale, all’epoca ancora tabù), ma anche rappresentativa di una precisa corrente cinematografica. Straordinarie le prove di Sordi e Gassman, capaci di dare vita a due personaggi codardi ma profondamente umani. Leone d’oro ex aequo con Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini.

4) Bella di giorno

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La vicenda di Sèverine, una delle tante donne che popolano il cinema di Luis Buñuel, nella sua cristallina linearità è un affilato j’accuse contro l’ipocrisia borghese: nel suo personaggio si condensa un substrato onirico che sin dallo straordinario incipit delinea il profilo della sua identità sociale e sessuale. I momenti più riusciti e quelli dotati di maggiore carica perturbante sono quelli in cui Sèverine vive i suoi sogni, dando corpo a pulsioni represse, desideri inconsci, parafilie e feticismi; altrove, nella algida sterilità della vita reale, il represso affiora, come sempre in Buñuel, solo attraverso incidenti o lapsus. I due piani si confondo nel finale, quando la protagonista, compiuto il percorso di esplorazione della sua sessualità, si scopre capace di dominare suo marito.

3) L’anno scorso a Marienbad (1961)

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Strepitosa opera seconda di Alain Resnais. L’albergo di Marienbad – non a caso un hotel-labirinto – è l’unico punto di appoggio concreto di un percorso narrativo che si muove tra diversi passaggi temporali e, perfino, spaziali. Con un taglio di forte impronta modernista, Resnais mescola fantasia, sogno e realtà, in un racconto dai toni ambigui che vede protagonisti tre personaggi contrassegnati da una lettera, simbolo della loro confusione identitaria: lei è A (Seyrig), il marito è M (Sacha Pitoëff), ma la vera incognita è X (Albertazzi), io narrante e ospite indesiderato che si mette in mezzo alla coppia sposata. E, allo stesso modo, il tempo di cui parla è un’altra incognita come lui: quell’“anno scorso” è un tempo indefinito, che può rappresentare tutti gli anni passati e, forse, anche quelli a venire.

2) Ordet – La parola (1955)

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Tratto da un’opera teatrale del pastore protestante Kaj Munk, Ordet è il capolavoro della maturità per Carl Theodor Dreyer. Nessun altro film nella storia del cinema è mai riuscito a mettere in scena il tema delle fede con la stessa radicale intensità. Ogni personaggio della pellicola vive la fede religiosa in modo diverso, ed è significativo che ispiratori della risurrezione finale siano un folle e una bambina. Anche sul piano formale Ordet è memorabile, ispirato a un quintessenziale utilizzo dello spazio in cui la macchina da presa si muove con magistrale solennità e compostezza. Straordinario anche l’utilizzo della luce e di alcune location nello Jutland, come nella memorabile sequenza della brughiera battuta dal vento.

1) Rashomon (1950)

rashomon

Magistralmente definito da una struttura a flashback, il film di Akira Kurosawa stigmatizza l’impossibilità di giungere a una verità definitiva, operando su due livelli: l’inadeguatezza morale di un’umanità condannata al caos e il paradosso della prospettiva filmica, con una messinscena che instilla il dubbio dell’inganno su un delitto tanto feroce quanto gratuito, operando minime variazioni nei movimenti della macchina da presa (ed evitando riprese in soggettiva). L’opera tocca vertici di pessimismo universale, limati però da un finale catartico che, come spesso accade in Kurosawa, riesce miracolosamente a restituire fiducia in un mondo ormai contaminato dall’ipocrisia e dall’opportunismo. Accolto tiepidamente in patria, vinse il Leone d’oro e un Oscar come miglior film straniero.

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