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Uno, nessuno e centomila Alberto Sordi

Il 15 giugno 2020 cadeva il centenario dalla nascita di Alberto Sordi, attore il cui volto è ormai indelebilmente annoverato fra i grandi interpreti comici che hanno contribuito alle fortune della commedia all’italiana.
Volto ormai diventato simbolo della veracità romana, quello dell’Albertone nazionale (appellativo affettuoso che sottolinea quel legame familiare che lega gli italiani all’attore romano), e che tutti noi abbiamo imparato a conoscere fin da piccoli.
È stata forse questa la più grande intuizione di Alberto: aver interpretato, nella sua più che prolifica carriera (all’attivo più di 200 film), una panoplia di personaggi tutti differenti ma allo stesso tempo uguali, tratteggiati da una caratterizzazione ordinaria e veritiera di quelli che erano (e sono tuttora) i vizi dell’italiano medio.

Artista versatile, il nostro Albertone, che, prima di raggiungere la fama con il grande schermo, spaziò dal teatro alla radio, lavorando anche come doppiatore (prestò la voce a Oliver Hardy).
Con l’approdo nel mondo del cinema il giovane comico rampante iniziò a far notare il suo talento: aneddoto curioso è quanto successe sul set di Totò e i re di Roma (1951), diretto da Steno e Monicelli: durante una scena che vedeva affiancati il giovane Sordi e il navigato Totò, quest’ultimo iniziò a sputacchiare sul collo di Alberto, lasciando i due registi perplessi sul motivo di tale gesto.
Enrico Vanzina, figlio di Steno, commenta così l’episodio nel documentario Siamo tutti Alberto Sordi: «Anche lì mio papà e Monicelli si chiedono perché. Poi l'hanno capito. Totò aveva capito che Sordi era un grande attore e gli stava rubando la scena, per cui voleva entrarci in qualche modo».

È curioso notare come i grandi artisti del cinema comico italiano fossero legati anche da un’amicizia che affondava le proprie radici fin dall’adolescenza, quando ognuno di loro sognava di diventare chi un attore famoso, e chi un grande regista. I destini del giovane Scola, di Sordi e Fellini appaiono così intrecciati e legati assieme dal filo del fato e non sembrerà quindi un caso il fatto che il film della svolta per il nostro attore romano corrisponda proprio con l’esordio alla regia del grande Fellini: Lo sceicco bianco (1952).
Già in questo film venivano a galla i vizi di un’Italia che si è sempre rispecchiata nello stereotipo del furbetto e del provolone, ma al contempo pavido e remissivo se preso in castagna.
I personaggi di Sordi sono l’amico zelante che conosciamo da una vita, sono il parente timoroso e ossequioso che vediamo a ogni festività, siamo tutti noi, incapaci di lasciare casa per inseguire i nostri sogni, vittime delle nostre insicurezze, naufraghi in un placido mare di stasi e immobilismo (Alberto e i suoi amici de I vitelloni ben incarnano questa paralisi di joyciana memoria).



Assume gli ironici tratti del paradosso realizzare che, per quanto ci possa risultare intimo quel mosaico di maschere interpretate dall’attore romano, della vita privata di Sordi sappiamo ben poco.
La riservatezza che lo contraddistingueva ha così impedito di illuminare i lati più profondi e in ombra della sua persona (così come la sua casa, perennemente immersa nella penombra, perché «Er sole me rovina i quadri» ci racconta l’amico Carlo Verdone). Delle sue molteplici storie d’amore, vere o presunte, l’unica relazione sentimentale accertata fu con Andreina Pagnani (storia durata nove anni).
Alberto non convogliò mai a nozze e non mise mai su famiglia; la sua vera passione era il cinema, ma il suo cuore batté anche per un’altra donna: Silvana Mangano. L’attrice romana, sposata con Dino De Laurentiis, recitò al fianco di Sordi in La grande guerra di Mario Monicelli, Crimen di Mario Camerini e La mia signora di Brass.
Altra figura che instaurò un fortunato sodalizio artistico con l’attore romano fu lo sceneggiatore Rodolfo Sonego. Molti degli amici e dei colleghi dell’Albertone nazionale concordano nel dire che “Sonego fu lo spessore di Sordi”: donò all’attore il profondo bagaglio culturale di cui era sprovvisto, e bilanciò l’istinto e il ferino intuito di Alberto con uno sguardo critico e tagliente.
I due formarono così l’accoppiata vincente che ben conosciamo, restituendoci così un mosaico di maschere, specchi che riflettono le fastidiose verità di un’Italia che, mentre ride di gusto, si agita nervosa in poltrona, inconsciamente infastidita da questa scomoda immagine di sé.

Simone Manciulli

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