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Far East Film Festival 24 – Il racconto della quinta giornata: la storia di Leonor fa sognare i cinefili
Giro di boa per il FEFF 24. Una giornata che ha visto l'arrivo tra i film in concorso del sorprendente Leonor Will Never Die, opera prima di Martika Ramirez Escobar già presentata all'ultimo Sundance. Purtroppo va registrata la larga disparità di qualità tra il film filippino e gli altri titoli in concorso; ma la sezione out of competition ha regalato spettacolo e commozione grazie a titoli già apprezzati nei festival come Escape from Mogadishu di Ryoo Seung-wan e Inu-Oh di Masaaki Yuasa, oltre al documentario Satoshi Kon: The Illusionist, dedicato al maestro dell'anime giapponese, prematuramente scomparso nel 2010.

LEONOR WILL NEVER DIE
Arriva dalle Filippine il film migliore tra quelli visti finora in concorso, merito della giovane Martika Ramirez Escobar. Una regista al suo esordio al lungometraggio, che sceglie di scrivere un'appassionata love letter al cinema del suo Paese coadiuvata da un'interprete straordinaria come Sheila Francisco. La Leonor del titolo è un'anziana sceneggiatrice di film d'azione, attiva soprattutto negli anni Ottanta e ora semi-ritirata in seguito a un incidente sul set che ha portato alla morte del giovane figlio Ronwaldo. Leonor vive con l'altro figlio Rudi, ma non ha mai dimenticato l'altro figlio, del quale porta il nome tatuato sul polso e che gli appare spesso come fantasma. Ronwaldo è anche il nome del protagonista del suo ultimo script (Ang Pagbabalik ng Kwago, ossia "Il ritorno del gufo"), che Leonor vuole sottoporre a un concorso; ma il destino ci si mette di mezzo, e un televisore caduto da una finestra spedisce Leonor in coma e, soprattutto, all'interno del film che, come in un racconto di Borges, la donna continua a scrivere nella sua mente.


Per Escobar la storia di Leonor è un veicolo (non un pretesto) per tracciare una mappa culturale delle Filippine e del cinema (soprattutto di genere, popolare) come elemento di aggregazione. Vi è nel film un continuo passaggio stilistico tra schermi, supporti e formati, dal cinemascope al 4:3 televisivo. A risaltare più che il telo del cinema è il monitor del televisore, espressione di una dimensione ancora più comunitaria e tipicamente filippina. Risalta anche la dimensione fantasmatica dell'immagine catodica, replicata nello spettro autentico del figlio Ronwaldo. Sarebbe riduttivo parlare di Leonor Will Never Die come di un semplice esercizio cinefilo: l'amore per il cinema di Escobar è travolgente, ma soprattutto la storia conquista e dice cose profonde sull'elaborazione del lutto (Leonor cerca di salvare una versione fittizia del figlio nella fantasia, dopo averlo perso nella realtà). Per una debuttante, Escobar si trova a suo agio nel metacinema, e soprattutto sperimenta soluzioni e raccordi fantasiosi nel passaggio tra i tanti livelli del film. Leonor infatti non si riduce a una dicotomia tra realtà e fantasia, perché il mondo fuori dalla sceneggiatura di Leonor è esso stesso pieno di fantasmi e situazioni surreali. Il suo realismo magico è debitore di autori come Weerasethakul e Reygadas, ma a differenza di questi vi è più ritmo e innocenza. L'omaggio ai generi cinematografici popolari trova il suo climax nello scoppiettante finale musicale, che conclude in maniera emozionante un film genuinamente creativo e sorprendente che ci ricorda di quanto sia bello andare al cinema e innamorarsi dei film e dei loro microcosmi. 

ESCAPE FROM MOGADISHU
Esplosioni, intrighi politici, risate e virtuosismi di macchina è questo il biglietto da visita con cui si presenta Ryoo Seung-wan. Escape from Mogadishu è un film che ci riguarda direttamente raccontando l'incredibile storia sviluppatasi in Somalia alla fine del 1991, quando l’ambasciatore Han Shin-sung e il suo ristretto staff dell’ambasciata sudcoreana si unirono ai loro acerrimi nemici dell’ambasciata nordcoreana per chiedere soccorso all'Italia, paese diplomaticamente forte nell'ex-colonia. Presente in sala il protagonista di quell'operazione, l'ex-ambasciatore italiano in Somalia Mario Sica, che ha raccontato la sua incredibile e potentissima storia personale. La pellicola riesce prima di tutto a contestualizzare in maniera frenetica e divertente un contesto diplomatico molto chiaro, costruendo sulla scacchiera personaggi inaspettatamente sfaccettati. La spettacolarità, garantita da un alto budget, ha divertito e tenuto con il fiato sospeso il pubblico di Udine. Impossibile non applaudire dunque Ryoo (che ricordiamo per Crying Fist, The City of Violence e The Unjust) che con Escape from Mogadishu punta ad avvicinarsi all'incredibile successo di pubblico di Veteran del 2014. Ryoo lavora su un quadro particolarmente ampio, catturando la disintegrazione di un’intera città insieme alla tensione e al dramma derivanti dalla situazione dei protagonisti. Interamente girato in Marocco nei mesi che hanno preceduto l’inizio della pandemia, il film è sorprendentemente realistico e presenta parecchie sequenze stupefacenti. 


ANIMAZIONE 
Il mondo dell'animazione giapponese è stato il grande protagonista del pomeriggio al Visionario con una duplice proposta di alto livello. Applausi e lacrime per il documentario biografico francese Satoshi Kon: The Illusionist di Pascal-Alex Vincent: omaggio al grande regista scomparso prematuramente, attraverso i punti di vista di figure importantissime come Aronofsky, Marc Caro e Hosoda Mamoru, ma anche dei collaboratori che ne hanno svelto la dimensione più privata e riservata. La narrazione procede (e non poteva essere altrimenti) con la filmografia: si parte dalla carriera da fumettista e dal rapporto con Otomo Katsuhiro, sino al clamore dell'esordio di Perfect Blue (1997). Un successo non immediato che è dovuto passare dalla scommessa vinta di Millennium Actress e del diverso e convincentissimo Tokyo Godfathers (2003). Poi il plauso internazionale a Venezia con Paprika (2006), il titolo forse più noto (soprattutto per le influenze sull'Inception di Nolan), seguita alla grande curiosità nata attorno alla serie Paranoia Agent (2004). Quello di  Pascal-Alex Vincent è un documentario nella media che ha però il pregio di restituire in maniera rigorosa il ritratto di una figura simbolo dell'animazione giapponese contemporanea (e non solo), un documentario capace, ancora una volta, di far rimpiangere la scomparsa di una creatività unica e geniale che era pronta a tornare con il lungometraggio mai realizzato Dreaming Machine.

E' seguita all'omaggio una novità solo parziale nel panorama festivaliero cioè Inu-Ho di Yuasa Masaaki. Il film, presentato in anteprima nella sezione Orizzonti del festival di Venezia del 2021, è uno dei rari prodotti giapponesi incentrati (solo) sulla musica e la danza del Giappone del XIV secolo. Tratto dal romanzo di Furukawa Hideo, il film racconta la storia di due artisti con disabilità che uniscono i loro talenti per creare qualcosa che per l’epoca era rivoluzionario e quindi pericoloso. I numeri musicali sono chiassosamente e brillantemente senza confini, paragonabili al glam rock, all’heavy metal e a Freddie Mercury, anche se l’animazione, con il suo fascino visivo e la sua energia esplosiva, appartiene completamente a Yuasa. Una storia originale, da cnfermare tutte le buone impressioni arrivate dal Lido. 


HORROR
La giornata si è aperta e conclusa all'insegna del cinema horror, solitamente non il pezzo forte del festival. Purtroppo l'andazzo non è cambiato con Rabid, ultima fatica di Erik Matti e della sceneggiatrice Michiko Yamamoto, e con Incantation, del giovane regista taiwanese Kevin Ko. Rabid è un film composto da quattro episodi che, tra horror e commedia, si propongono di riflettere sulla "nuova normalità" delle Filippine post-Covid. Se i primi due episodi falliscono miseramente su ogni livello (una tritissima home invasion con una sterile critica sociale e una storia d'amore post-apocalittica in ridondante bianco e nero), il terzo dice qualcosa di interessante sulla percezione della malattia. Ma è il quarto episodio, storia di una casalinga che in lockdown stringe un patto col diavolo -un sito russo- per vendere le proprie ricette, a cogliere nel segno e giustificare la visione. Poco da segnalare invece a proposito di Incantation, solito found footage che al genere aggiunge poco e che sacrifica un'ottima occasione per parlare della paura della maternità all'altare del cheap jump scare.

GLI ALTRI
Tra i film in concorso segnaliamo anche l'hongkonghse Sunshine of My Life, storia del rapporto di una ragazza vedente con i propri genitori ciechi. Sunshine of My Life è un polpettone strappalacrime che, quando abbandona le facili manipolazioni emotive, regala rari momenti di autentica umanità, grazie anche all'esperienza diretta della regista Judy Chu, che porta sul grande schermo la storia della propria famiglia. Segnaliamo infine, tra i classici, la proiezione di Fiore pallido (1964) di Masahiro Shinoda, autentico capolavoro della new wave giapponese, presentato in meravigliosa versione restaurata su grande schermo.

A cura di Marco Lovisato e Andrea Valmori 
Maximal Interjector
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