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La commedia italiana negli anni '80 e '90, tra Moretti e Vanzina
Che ne è stato della commedia italiana negli anni '80 e '90? I registi emergenti che si stavano affermando proprio in quegli anni hanno saputo fare propria la lezione dei grandi autori che li hanno preceduti?

Per scoprirlo, andiamo a riscoprire i titoli imperdibili che hanno segnato la comicità, spesso dolceamara, di questi due decenni con la classifica delle venti migliori commedie degli anni '80 e '90.

20) Sapore di mare (Carlo Vanzina, 1983)



Un gruppo di giovani trascorre l'estate al mare in Versilia, tra amori, tradimenti e risate. Lo si potrebbe definire l'antesignano estivo della serie di Vacanze di Natale, il cui capostipite uscirà proprio nello stesso anno. Un film che nelle intenzioni vuole fotografare le varie sfaccettature dell'italiano in vacanza al mare, con tanto di canzoni evocative degli anni '60, in un mix di leggerezza e divertimento. Ne esce una sorta di rivisitazione degli istant movie balneari dell'epoca del boom economico, con al centro un sincero trasporto nostalgico. Troppo spesso il clima leggero si trasforma in cialtroneria, ma nel panorama complessivo del genere di riferimento ha una sua precisa collocazione, non del tutto trascurabile. Jerry Calà e Christian De Sica, non ancora "vittime" di battute pecorecce e triviali doppi sensi, sono più che godibili. Molto bellla la sequenza finale.

19) Ovosodo (Paolo Virzì, 1997)



Dopo due pellicole su coppie e famiglie, La bella vita (1994) e Ferie d'agosto (1996), Paolo Virzì passa all'incontro di due generi/filoni, la commedia all'italiana e il romanzo di formazione, che utilizzerà spesso nel corso della sua carriera successiva. La storia di Ovosodo, scritta dallo stesso Virzì con Francesco Bruni e Furio Scarpelli, procede per momenti più che per eventi, indagando le fasi della crescita di ogni adolescente: la scuola, la maturità, la leva, la ricerca del lavoro. Raccontando l'esistenza ordinaria del suo personaggio, il regista livornese cade a tratti in un eccessivo schematismo che limita, almeno in parte, la portata del suo lavoro, ma il risultato complessivo è più che buono. Si ride, ci si commuove, si fanno i conti con «l'ovosodo che non va su e non va giù», quel momento di ''intoppo'' normale ma molto difficile, un ostacolo tra il crescere e il momento di essere adulti. Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia del 1997.

18) Impiegati (Pupi Avati, 1985)


Commedia agrodolce diretta da Pupi Avati ed esordio assoluto di Claudio Botosso nel ruolo di protagonista. Il regista emiliano si concentra sui problemi legati a una maturità solo apparente (i personaggi sembrano bloccati alla crescita zero), con uno sguardo meno malinconico rispetto ai film precedenti (Una gita scolastica, 1983), poco conciliante e funzionalmente corrosivo. La macchina da presa, sempre composta e attenta, si concentra su piccinerie, cinismo e ipocrisia dilagante in certi ambienti di lavoro, denunciando temi scottanti quali arrivismo, classismo, tradimenti e una moralità ormai rara. Qualche passaggio a vuoto non manca, ma la strisciante crudeltà del film, sorta di romanzo di formazione del ceto impiegatizio, colpisce nel segno. Musiche di Riz Ortolani.

17) Parenti serpenti (Mario Monicelli, 1992)



Un film corale in grado di fotografare egregiamente invidie e liti tipicamente familiari: il merito è (quasi interamente) degli sceneggiatori, in una pellicola di matrice teatrale, dove la mano del regista è poco visibile. Dalla fantasia di Carmine Amoroso, infatti, nasce una galleria di divertenti personaggi interpretati caparbiamente da Paolo Panelli, Pia Velsi, Alessandro Haber e Cinzia Leone. Prende così vita, sullo schermo, una società senza speranza, in cui gli individui sono disposti a tutto pur di vivere bene, in un crescendo di crudeltà e cattiverie oltre ogni limite. Si ride a denti strettissimi.

16) Mediterraneo (Gabriele Salvatores, 1991)



Capitolo conclusivo della "Trilogia della fuga", preceduto da Marrakech Express (1989) e Turné (1990), il film è riassunto dal pensiero del filosofo francese Henri Laborit: «In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare» e dalla didascalia finale «Dedicato a tutti quelli che stanno scappando». Commedia dolceamara, diventata lo specchio dei rimpianti, delle fragilità e delle insicurezze della generazione a cui appartengono anche il regista e l'affiatato gruppo di attori (fra cui spiccano Diego Abatantuono, Claudio Bisio e Giuseppe Cederna). Persa la forte identità politica degli anni Settanta, lo Stato dimentica i suoi combattenti in un limbo sì felice, ma al contempo isolato e priva di collegamenti con l'esterno. Il film che diverte e scorre veloce, diventato un piccolo classico anche in seguito all'incredibile successo internazionale.Girato nella isola greca di Castelrosso (Megisti in lingua greca), posta a sud-est di Rodi, nel Dodecanneso. Generosissimo Oscar come miglior film straniero.

15) Fantozzi contro tutti (Neri Parenti, Paolo Villaggio, 1980)



Il terzo film dedicato al personaggio di Fantozzi è anche quello che rappresenta il raggiungimento del punto di non ritorno della saga. Pur essendo solo di poco inferiore ai precedenti due, si comincia comunque ad avvertire uno scricchiolio in quelle che, in precedenza, erano delle fondamenta solidissime. Innanzitutto c'è un cambio alla regia, Salce viene sostituito da Neri Parenti e dallo stesso Villaggio che, per l'ultima volta, cura anche il soggetto. Non mancano le sequenze rimaste nella memoria collettiva (le polpette del dottor Birkenmaier, Cecco il nipote del fornaio, la  mitica “Coppa Cobram”, la crociera a bordo dello yacht del direttore Marchese Conte Piermatteo Barambani) ma il disegno d'insieme non è più così efficace. Le situazioni esilaranti si susseguono a ritmo frenetico e il gusto per la gag surreale è portato al parossismo, con esiti però altalenanti. In ogni caso, un film entrato nel mito popolare. Da questo capitolo in avanti, la moglie Pina non verrà più interpretata da Liù Bosisio ma da Milena Vukotic.

14) Un sacco bello (Carlo Verdone, 1980)



Esordio cinematografico per Carlo Verdone prodotto da Sergio Leone e sceneggiato dal regista insieme a Leonardo Benvenuti e Piero De Bernardi. La esile struttura drammaturgica, composta da tre episodi paralleli, è funzionale per esaltare le doti istrioniche dell'attore e regista impegnato a interpretare con mirabile talento ben sei personaggi (i tre protagonisti e tre figure secondarie), incarnando tic, idiosincrasie, meschinità e debolezze di uomini comuni, mediocri alla ricerca di possibilità di riscatto puntualmente deluse. Al di là delle esilaranti macchiette è interessante, seppure acerbo e discontinuo, lo sguardo malinconico e al contempo sagace con cui Verdone descrive una società italiana ferita e segnata dagli anni di piombo che si approccia al nuovo decennio con una speranza di normalità, lasciando da parte delusioni e dispiaceri. Una chicca capace di guardare alla tradizione della commedia all'italiana, anche nella sapida descrizione dei personaggi secondari. Bellissma colonna sonora di Ennio Morricone.

13) Il mostro (Roberto Benigni, 1994)



Si dice che la malizia stia negli occhi di chi guarda e Roberto Benigni fa propria questa affermazione ponendola alla base del film. Il regista toscano gioca con il “cinema da paura”, prendendo spunto da fatti di cronaca per evidenziare le brutture della vita di tutti i giorni attraverso un processo che incrocia farsa degli equivoci e comicità surreale. Molto intelligente il ribaltamento di prospettiva con cui Benigni evidenzia i rapporti tra vittima e carnefice: persona gretta, dispettosa ed egoista, racchiude tutta la "mostruosità" delle piccole idiosincrasie quotidiane, mentre il vero colpevole è un insospettabile. In un quadro narrativo basico ed elementare, i momenti di genuino divertimento non mancano (la scena dei manichini, ad esempio). Pimpante sceneggiatura di Benigni e Vincenzo Cerami e ottima performance del comico toscano in un ruolo che esalta la sua istrionica capacità mimica.

12) Il marchese del grillo (Mario Monicelli, 1981)


Commedia in costume ispirata ad alcuni racconti popolari capitolini, e all'omonimo libro di Luca Desiato, il film è un buon esempio di teatro popolare riprodotto sullo schermo, sempre in bilico tra crudeltà e goliardia. Interamente costruita sulla verve di Alberto Sordi, qui impegnato in uno dei suoi ruoli più iconici, la pellicola è un monumento alla comicità e alla presenza scenica del grande attore romano, il quale ci guida alla scoperta di una serie di personaggi tipicamente monicelliani, antieroi alla ricerca di una condizione migliore. Un po' manierista e ridondante nell'incedere, rimane un piccolo classico costellato di momenti memorabili e battute fulminanti («Io so' io... e voi non siete un cazzo!»). Orso d'argento per la miglior regia al Festival di Berlino.

11) Sono fotogenico (Dino Risi, 1980)



Ritratto al vetriolo del business che ruota intorno alla fabbrica dei sogni cinematografica: Dino Risi fotografa un mondo ipocrita e spietato, filtrandolo attraverso l'occhio ingenuo del suo protagonista e distruggendo sistematicamente i miti in celluloide, fagocitati da brutture e meschinità (emblematiche, in tal senso, le apparizioni di star del calibro di Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, calati in un contesto tutt'altro che celebrativo). Alcune esagerazioni (la pensione lager, gli assurdi incidenti sul set, l'omosessualità a sfondo caricaturale) stonano, finendo per confondere, invece di fondere, i registri: rimangono comunque l'amarezza e la bruciante delusione per un contesto che di idilliaco non ha più nulla. Più di una sequenza colpisce nel segno, soprattutto grazie a un Renato Pozzetto perfettamente in parte.

10) Maledetto il giorno che t'ho incontrato (Carlo Verdone, 1992)



Una commedia romantica che racconta l'incontro tra due nevrotici con tocco leggero e sofisticato, dal ritmo sincopato e trascinante che guarda a Woody Allen. Carlo Verdone firma uno dei suoi film più riusciti, stemperando l'amarezza di fondo e declinando con affetto e brillante inventiva la storia di due disadattati che cercano di coesistere malgrado il loro carico di fobie e conflittualità latenti. Si incontrano, si vogliono bene, si lasciano, si ritrovano. Come accade nella vita. Efficace sceneggiatura di Francesca Marciano e dello stesso Verdone. La colonna sonora è cadenzata dalle sonorità di Jimi Hendrix ,ma presenta anche altri brani celebri del repertorio anni '60-'70, di cui il regista romano è un cultore. Ottime interpretazioni. Un pizzico di coraggio in più, specialmente nel finalino consolatorio, non avrebbe guastato, ma non ci si può certo lamentare.

9) Volere volare (Maurizio Nichetti, 1991)



Poetica celebrazione della magia del cinema in cui l'animazione si fonde con la realtà, Volere volare è una gemma preziosa da conservare gelosamente, ricca di rimandi cinefili. Il personaggio di Maurizio Nichetti ha evidenti richiami al Monsieur Hulot di Jacques Tati nel suo essere stralunato e nel rapporto significativo con suoni e rumori (davvero godibile la scena del film erotico con i suoni tipici dell'animazione) e c'è, inoltre, un forte richiamo al mondo disneyano, grazie alla collaborazione con Guido Manuli: i corti iniziali ricordano i primi lavori di Disney, come il personaggio di Oswald the Lucky Rabbit, così come le mani animate ricordano Topolino. A metà tra parodia e omaggio, Nichetti si muove in un mondo stravagante, in cui i due protagonisti si trovano sempre in situazioni al limite dell'assurdo. Simpatica e in parte Angela Finocchiaro e buona prova di Nichetti, che ben si adatta all'atmosfera stralunata della pellicola. Una bella fiaba, dallo spirito leggero e surreale.

8) Turné (Gabriele Salvatores, 1990)



Gabriele Salvatores torna al tema sul viaggio, stavolta attraverso l'Italia, dopo la parentesi in Marocco con Marrakech Express (1989), e mette di nuovo al centro della vicenda l'amicizia di vecchia data tra uomini, con la sua relativa evoluzione. All'interno di una pellicola intimista on the road dalla solida scrittura, il trio di interpreti (Abatantuono/Bentivoglio/Morante) ha trovato un riuscito equilibrio, segno di una evidente alchimia al di là della finzione cinematografica. Dialoghi brillanti che alternano commedia e dramma esistenziale, senza rinunciare a un pizzico di romanticismo. Semplice, lineare e autentica, la pellicola è anche una riuscita riflessione sulla maschera dell'attore. Una meraviglia. Sceneggiatura di Francesca Marciano, Fabrizio Bentivoglio e lo stesso Salvatores. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.

7) Son contento (Maurizio Ponzi, 1983)



Terza e ultima collaborazione tra Maurizio Ponzi e Francesco Nuti, comico toscano ormai lanciato verso una carriera solista. L'affermazione personale, il successo artistico, il destino («Parlare di casualità in termini poetici non è affatto facile»), l'amore tormentato: il regista riflette sul rapporto tra uomini e donne e sulle contraddizioni di una generazione apparentemente (e amaramente) votata al fallimento. Temi ambiziosi per una commedia malinconica e crepuscolare, in cui la verve attoriale di Nuti (mai così controllato) trova un sommesso equilibrio tra dolcezza e causticità. Un grande film da riscoprire, supportato da comprimari d'eccezione (ottimi Carlo Giuffrè, vincitore di un David di Donatello come attore non protagonista nel ruolo di Falcone, e la splendida Barbara De Rossi) e da un finale rarefatto e dolceamaro.

6) La vita è bella (Roberto Benigni, 1997)



L'opera più universale realizzata da Roberto Benigni, regista e sceneggiatore (insieme a Vincenzo Cerami) di una fiaba intimista che riesce a trasfigurare una delle pagine storiche più devastanti del ventesimo secolo. Scisso ma perfettamente omogeneo nello spirito, il sesto lungometraggio del regista toscano scivola dalla farsa al dramma, attraverso uno spiazzante cambio di registro in cui, in ogni caso, il sorriso non viene mai a mancare. L'Olocausto viene affrontato con una delicatezza capace di sfociare nella poesia, spostando il focus dall'orrore dello sterminio (mai banalizzato, nonostante rimanga fuori campo) al coraggio di un'umanità che non vuole vedere calpestata la propria dignità per poter continuare a sperare in un futuro migliore. Buffo, tenero e commovente nel prendere in giro gli orchi cattivi pur spingendo lo spettatore a un doveroso momento di riflessione. Peccato soltanto per una conclusione eccessivamente lacrimevole, retorica e studiata a tavolino. Fotografia di Tonino Delli Colli, musiche di Nicola Piovani. Tre premi Oscar (film straniero, attore protagonista, colonna sonora) più altre quattro nomination (film, regia, sceneggiatura, montaggio), otto David di Donatello, cinque Nastri d'argento, premio César per il miglior film straniero, BAFTA al miglior attore protagonista, Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes e Premio del pubblico al Toronto International Film Festival.

5) Compagni di scuola (Carlo Verdone, 1988)


Il film più ambizioso e compiuto di Carlo Verdone che riesce a modulare un personale approccio alla commedia all'italiana, costruendo un racconto capace di far sorridere pur muovendosi su un sottotesto malinconico. Il regista romano mette in scena l'amaro bilancio esistenziale di un gruppo di disillusi trentenni che si trovano a dover fare i conti con i rispettivi campionari di delusioni, fallimenti e miserie personali. Il tono è sempre in bilico fra dramma e grottesco, ma ha il merito di non cedere mai a banalizzazioni o facili approssimazioni, mantenendo anche una certa cattiveria nella descrizione di una generazione più superficiale e inetta di quanto sia disposta ad ammettere. Grasse risate nelle scene con Walter, interpretato dal compianto Angelo Bernabucci (1944-2014), romanaccio arricchito dalla battuta greve e volgare. L'ispirazione per il soggetto viene da un'esperienza personale di Carlo Verdone e Christian De Sica, compagni di classe oltre che cognati. Imprescindibile.

4) Speriamo che sia femmina (Mario Monicelli, 1986)



Un film "in rosa" anomalo, condotto con mano ferma ma leggera da un cineasta abituato alla ruvidezza e alla goliardia tipicamente maschili. Monicelli, per la prima volta, coniuga il suo cinema collettivo con il mondo femminile, dove l'uomo è una macchietta in secondo piano, senilmente instabile o poco affidabile. Una commedia drammatica in cui si ride a denti strettissimi e si riflette sul tempo che passa inesorabile portando dietro di sé sogni e speranze di chi non può fare altro che rimpiangere il proprio passato. Il quadro, maturo e stimolante, è quello di una umanità inaridita dalle troppe occasioni mancate, in cui è solo la donna a conservare un barlume di cosciente responsabilità. Una pellicola moderna che si aggancia a una contemporaneità in continua evoluzione (involuzione?), osservando con curiosità fenomeni di costume come l'emancipazione delle madri single o il tradimento vissuto come un elemento quasi ineludibile della vita matrimoniale. Belle prove di un cast di altissimo livello, da Giuliana De Sio a Stefania Sandrelli, passando per Catherine Deneuve e Liv Ullmann. Soggetto di Tullio Pinelli che collabora alla sceneggiatura con il regista, Suso Cecchi d'Amico, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi.

3) Amici miei – Atto II (Mario Monicelli, 1982)



A sette anni di distanza da Amici miei (1975), Monicelli decide di dar seguito agli esilaranti episodi che hanno come protagonisti i cinque amici toscani, spingendo ancor più intensamente verso il tono malinconico. Se nel primo capitolo la mezza età era il problema, qui i personaggi sono costretti a "ricordare", a causa dell'inaspettata morte dell'amico Perozzi (Noiret), che ha destabilizzato le loro vite. Le ultime “zingarate” sono circondate da eventi tragici come l'alluvione di Firenze o la grave malattia che colpisce uno dei personaggi. Più che una commedia, il film è un dramma in cui il sorriso è seguito puntualmente dall'amarezza, in un crescendo di nostalgia ed emozioni che colpiscono e coinvolgono. Ottimo il contributo di un cast perfettamente in forma. Renzo Montagnani sostituisce Duilio Del Prete nei panni del Necchi. Seguito dal più modesto Amici miei – Atto III (1985), diretto però da Nanni Loy.

2) Ladri di saponette (Maurizio Nichetti, 1989)



Nichetti getta uno sguardo acuto sul rapporto tra televisione e il cinema, soffermandosi in particolare sulle interruzioni dei film a causa degli spot pubblicitari (cosa che, all'epoca, riguardava soprattutto le reti private). La pubblicità diventa parte del lungometraggio stesso, con un'intelligente e originale fusione tra l'approccio sognante del regista al proprio lavoro e quello sacrilego della televisione. Le tre linee narrative (spot, film e presentazione televisiva) sono rese ben distinguibili dalla fotografia, che varia dal bianco e nero per il lungometraggio, ai colori accesi e brillanti della pubblicità, per passare a quelli più tenui (e anonimi) della (grigia) realtà. L'autore riesce ad appropriarsi delle regole del neorealismo e declinarle secondo la propria visione fanciullesca, pur rimanendo credibile. Una piccola gemma di intelligenza e originalità, unica per ricchezza di invenzioni e capacità di far riflettere. Il cast è naturale e ben calato nella parte, con un Nichetti nella doppia veste di se stesso e di Antonio, nella finzione metacinematografica. Il critico Claudio G. Fava interpreta se stesso.

1) Bianca (Nanni Moretti, 1984)



Il film della maturità di Moretti devia per una volta dall'abituale pista del grottesco e dell'autoritratto in forma nevrotico-satirica, per inoltrarsi completamente nella dimensione, più complessa e sfaccettata, del dramma psicologico, che non rinuncia comunque a un aspetto da commedia. L'aspetto più folgorante di Bianca sta proprio nel fatto che il "morettismo" (vale a dire tutto il corredo di trovate e soluzioni spesso surreali care all'autore) non viene messo da parte ma, semmai, è sublimato. Con un controllo incredibile, verrebbe da dire quasi clinico, di personaggi, situazioni e rapporti umani, così sulfureo ma allo stesso tempo delicato da spingerlo alle soglie del capolavoro. Moretti che mangia Nutella da un contenitore enorme, rimane tra le immagini più iconiche del cinema italiano. Un film-spartiacque fondamentale, che segna il definitivo superamento di un certo tipo di commedia (ma anche un certo tipo di cinema in Italia, in generale), in auge fino alla fine degli anni '70. Fotografia di Luciano Tovoli, musiche originali di Franco Piersanti. Nella colonna sonora, Il cielo in una stanza, Insieme a te non ci sto più, Dieci ragazze e Scalo a Grado. Dolcissimo e straziante.
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