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Il nostro Hitchcock - Viaggio nel cinema del maestro del brivido

Alfred Hitchcock ha consegnato agli annali del cinema un campionario di ossessioni, pulsioni, implicazioni psicanalitiche, turbamenti e fascinazioni impossibile da dimenticare. Nella vastità della sua produzione abbiamo preso in esame sette film imprescindibili cui abbiamo fatto corrispondere altrettanti approfondimenti, molto spesso tematici: Notorious - L'amante perduta (1946), La finestra sul cortile (1954), La donna che visse due volte (1958), Intrigo internazionale (1959) - ma visto in un'ottica comparativa tutta sbilanciata su un film del suo periodo inglese, Il club dei 39 (1935) -, Psyco (1960), Gli uccelli (1963) e Marnie (1964). Con l'obiettivo di setacciare i punti fondamentali, e le corrispondenti chiavi di lettura (e di volta), dell'ingombrante e titanica impronta cinematografica del regista britannico naturalizzato statunitense, passato agli annali della storia della Settima Arte come «il maestro del brivido».

«NOTORIOUS È LA QUINTESSENZA DI HITCHCOCK» (Simone Soranna)

In effetti, lasciando per un attimo da parte la mia passione smisurata nei confronti di questa pellicola, probabilmente ha ragione Truffaut in tale virgolettato a lui attribuito. Notorious - L'amante perduta accoglie al suo interno tutte le ossessioni, le tematiche, le sfide del Maestro. Non che in futuro il fatto non si ripeterà, sia chiaro. Però qui si tocca tutto con mano per la prima volta. Notorious è il film più ingiustamente sottovalutato della carriera di Hitchcock, solamente perché ha la sfortuna di precedere di qualche anno la gloriosa decade che, da La finestra sul cortile (1954) a Gli uccelli (1963), scolpirà il nome del regista nell’Olimpo del cinema. Potremmo analizzare il film sequenza per sequenza, frame by frame, notando l’esile intreccio narrativo che riesce comunque a sostenere un’intera impalcatura drammatica grazie alla tensione e alla suspense, delineando il profilo della donna hitchcockiana per eccellenza (Ingrid Bergman), spendendo parole sul bacio più lungo e appassionato di sempre, sul finale claustrofobico e misterioso, sul MacGuffin e le anticipazioni inconsapevoli (?) della bomba atomica. Notorious è un vortice irresistibile e costante, una cottura a fuoco lento che non smette mai di scaldare gli occhi di chi guarda. Esattamente come la lunghissima e strepitosa inquadratura dell’avvicinamento alla chiave nascosta nel pugno della Bergman. Un unico take che riassume la potenza e la maestria del film. Senza montaggio, in soluzione continua, Hitchcock ripercorre idealmente tutta la scala dei campi e dei piani. Certo, non inizia dal campo lunghissimo ma da un totale (che comunque è il punto di vista più lontano possibile da raggiungere per una scena girata in interni). La macchina da presa compie una lievissima panoramica verso destra per descrivere la hall della sala del ricevimento e, una volta centrato il suo obiettivo (ovvero Alicia intenta a colloquiare nel mezzo), ecco che inizia la corsa. Ci si avvicina in maniera costante, non ci si ferma mai. In avanti, in avanti, in avanti. La macchina da presa, e noi con essa, plana sopra l’intero set sino ad arrivare, poco alla volta, al dettaglio della chiave all’interno della mano di lei. Senza raccontare troppo della trama (per chi ancora non si fosse imbattuto in questo lavoro), si tratta di una trovata narrativa ovviamente fondamentale, sulla quale di lì a poco saremo costretti a patire le pene dell’inferno per non poter intervenire ad aiutare i protagonisti con le informazioni in nostro possesso. Eppure è proprio su questo patema, su questa ambivalente tensione che ci spinge a continuare la visione, pur sapendo che sarà ardua da superare, su questa voglia di scoprire, di svelare il mistero, pur raggiungendolo con lenta e inesorabile agonia, che Hitchcock ha fondato la sua intera carriera. Si soffre, ma non si riesce a smettere. Non so se sia mai esistito un cineasta più magnetico. Di certo, però, non è mai esistito nessuno capace di toglierci il fiato per il dettaglio di una semplice, innocua, comunissima chiave.

Alfred Hitchcock Triumphs with “Notorious” | Alfred hitchcock ...

 

GUARDARE ED ESSERE GUARDATI: LA DOPPIEZZA OSSESSIVA DELLO SGUARDO NE LA FINESTRA SUL CORTILE (Davide Stanzione)

La macchina da presa fende lo spazio di una finestra inoltrandosi in un cortile dalle geometrie sinuose e affastellate, lussureggianti eppure limpidissime nelle architetture schematiche e moderniste. Nel Greenwich Village degli anni ’50, in un momento imprecisato del giorno, il sudore imperla la fronte di James Stewart, il termometro da parete segna poco più di 90 gradi, una voce diegetica, presumibilmente radiofonica, allude alla stanchezza e al disagio. Una donna biondissima in biancheria intima, affacciata a vista dalla sua abitazione, si protende in degli esercizi di ginnastica mentre degli uccelli stazionano placidi sul tetto del suo appartamento. La macchina da presa, fluida e famelica, non stacca e dall’esterno invade l’abitazione del protagonista, si sofferma sulle foto sulle sue mensole, sul gesso che gli immobilizza la gamba da sei settimane e su cui è riportata la scritta «qui giacciono le ossa di L. B. "Jeff" Jefferies».

Si tratta del memorabile prologo de La finestra sul cortile, il film di Alfred Hitchcock che più di ogni altro si erge, all’interno della sua produzione, a saggio monumentale sulla perversione dell’osservazione coatta, sul voyeurismo e le sue infinite applicazioni. Lo fa a partire da una condizione di stasi e di immobilità forzata dopo una frattura alla gamba sinistra occorsa al personaggio di Stewart (alla fine della degenza di Jeff, quando il film inizia, manca ancora una settimana). Quale condizione migliore, al di fuori di questa «palude di noia», per squadernare un caleidoscopio di vertiginose e infinite messe in quadro attraverso il teleobiettivo del protagonista, fotoreporter professionista e proiezione per antonomasia del voyeurismo hitchcockiano?

Se è impossibile non riconoscersi nell’ironia pungente e al vetriolo della sua infermiera Stella, che bolla l’umanità tutta come «Una razza di guardoni che farebbero meglio a guardare dentro casa propria», è altrettanto arduo non rilevare come tutto il film, fin dal suo paradigmatico incipit, si configuri come un'esplorazione polimorfica sullo sdoppiamento dello sguardo e sull’ontologia della magnifica ossessione connessa a ogni forma di versione rubata, distorta, vorace, totalizzante. Adattando un racconto di Cornelle Woolrich, al quale aggiunge un senso di terrore e inadeguatezza sorniona sul fronte dei rapporti uomo - donna (un’altra scissione fatale e incolmabile), Hitch stabilisce un prima e un dopo sul fronte della psicanalisi della visione, instillando nel suo film il germe di una consapevolezza lancinante e abissale: esistiamo, come monadi alle prese con le categorie sempiterne dello spazio e del tempo, solo come soggetti guardanti e al contempo guardati. Uno iato senza requie e che non ci dà pace, mancando, senza soluzione di continuità, ogni risoluzione.

Un sistema binario che, nel momento in cui sembra darci vita, contemporaneamente ci condanna alla nostra consistenza fantasmatica e spettrale. Come già il mito della caverna di Platone, in tempi non sospetti, aveva provveduto a chiarire, e un po’ come il cinema tutto, nella sua inalienabile e inafferrabile alterità rispetto al fluire della vita (alla quale il cinema di Hitchcock non voleva nient’affatto assomigliare, com’è noto). Così disincarnato eppure così drammaticamente concreto nel dispiegarsi sotto i nostri occhi famelici, condannati al ticchettio inesorabile della dissezione degli ambienti e dell’alternarsi delle fasi della giornata (il consueto cameo del cineasta lo vede in questo caso nei panni di un uomo che sistema un orologio da mobile, allegando una suggestione quasi demiurgica con una vena ironica solare e tipicamente hitchcockiana).

Un dualismo, l’ennesimo della sua filmografia, che ci permette di vivere ancora una volta due volte, nella misura di specchio riflettente delle nostre cornee sempre all’erta e di riflesso congenito del faro dell’osservazione altrui. La finestra sul cortile, da questo (doppio) punto di vista, è l’invito a cena (con delitto) perfetto che Sir Alfred indirizza a se stesso, il rendez-vous definitivo della sua idea di mystery e il compendio anticipato di una carriera: il punto d’incontro perfetto tra psicologismo, radiografia d’autore della condizione umana e codici di tensione e narrazione da giallo popolare. E forse, in definitiva, il suo lavoro più spudorato e personale, frutto malsano di turbamenti talmente privati e inconfessabili da risultare universali. Con la facilità primitiva e disarmante di ogni occhio sulla serratura che si rispetti.

 

LA VERTIGINE DELLA RIVELAZIONE: PERSONAGGI E SPETTATORI NE LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE (Andrea Chimento)

C’è una sequenza ne La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) che, da sola, potrebbe spiegare molto più del cinema di Hitchcock di tante altre scene più celebri e trattate della sua filmografia. È un momento, infatti, neanche sempre ricordato (rispetto ai numerosi passaggi più noti di questo capolavoro eterno): quello in cui Judy scrive una lettera a Scottie. Una lettera che mai gli arriverà, dato che la donna, un tempo Madeleine (un nome dal passato proustiano e dal futuro lynchiano), la straccerà dopo averla scritta: niente da fare così per Scottie, la spiegazione arriva soltanto a noi spettatori che ascoltiamo Judy che ci “detta” mentalmente la missiva mentre la sta scrivendo.

Una tipica situazione da suspense hitchcockiana, con il pubblico che sa chi è l’assassino (o, in questo caso, scopre il mistero) molto prima dei personaggi che stanno compiendo le indagini: «per produrre suspense, nella sua forma più comune, è indispensabile che il pubblico sia perfettamente informato di tutti gli elementi in gioco», diceva Hitchcock, con una delle intuizioni più potenti che la narrativa gialla abbia mai avuto.

Ma torniamo indietro nella sequenza, prima che Judy inizi a scrivere la lettera. La scena si apre con l’immagine della nuca della donna, la stessa nuca (uguale e diversa al medesimo tempo) che abbiamo visto insieme a Scottie nel museo: il taglio dei capelli e il colore sono diversi, ma il gioco di riflessi, in questo film dove il tema del doppio è così evidente, è molteplice.

Ora, invece, siamo senza Scottie, ci siamo soltanto noi a guardare (l’occhio che era già protagonista negli indimenticabili titoli di testa, capace di mettere subito le cose in chiaro: siamo di fronte a un film sullo sguardo). Poi Judy lentamente si volta, ci guarda con una consapevolezza pre-Nouvelle Vague francese (I 400 colpi arriverà un anno dopo, Fino all’ultimo respiro due anni dopo) e svela a noi spettatori, soltanto a noi, ciò che è successo, prima con le celebri immagini del flashback sul campanile, il suo ricordo che la tormenta; poi con le parole, dettagliate, di tutto il piano architettato dall’amico del protagonista. Un piano perfetto, se non fosse intervenuto l’amore a cambiare le carte in tavola. Una trama gialla che viene improvvisamente stravolta dall’ingresso del melodramma. Due generi che si alternano in un film che muta, doppio, come tutta la sua intera composizione.

Ancora una volta Hitchcock, dopo questa sequenza, ci fa sentire dentro il film, provocandoci una vertigine ancora più forte rispetto a quella del celebre effetto Vertigo (zoom all’indietro e carrello in avanti, o viceversa), con cui (insieme a Scottie, con una soggettiva) abbiamo avuto paura di cadere da una tettoia all’inizio della pellicola.

Personaggi come spettatori e spettatori come personaggi, come ci aveva già insegnato La finestra sul cortile. Spettatori insieme ai personaggi o spettatori senza i personaggi: in questo secondo caso, un pubblico che, come detto, sa e vede di più, come in un altro celebre sguardo verso di noi con Norman (?) Bates nel finale di Psycho.

Lo sguardo spettatoriale partecipa del film, Hitchcock gioca su questo, divertendosi e posizionandoci in un posto speciale per osservare ciò che avviene. Anche (e, forse, soprattutto) così il cinema diventa moderno. Un cinema che non è più il “di cosa” si parla, ma “il come” se ne parla, parafrasando una frase attribuita al regista. Un cinema che guardiamo dal di fuori e dal di dentro, contemporaneamente: un cinema, così, capace di farci vivere due volte.

 

IL CLUB DEI 39: IL COCKTAIL DI UN PERFETTO INTRIGO INTERNAZIONALE (Davide Dubinelli)

Dopo diversi tentativi e alcuni piccoli insuccessi, Il club dei 39 (The 39 Steps, 1935) segna il limpido e cristallino picco creativo del periodo inglese di Alfred Hitchcock e rappresenta il suo primo grande successo di critica e pubblico, giunto dopo aver girato già ben diciotto film. Croce e delizia della produzione hitchcockiana, gli anni '30 sono stati, per il maestro londinese, il decennio più prolifico, un lungo warm-up artistico di transizione, ricco di intuizioni ma anche di sonore delusioni. All'interno di questo periodo, tra tentativi falliti e piccole gemme in fieri, Il club dei 39 si configura come una inestimabile pietra preziosa che brilla di abbagliante luce propria. Hitchcock, a metà degli anni '30, consolida la sua reputazione di maestro del cinema, portando in scena, con questo film, un modello che riprenderà lui stesso più volte nella sua carriera e che darà vita a innumerevoli tentativi di imitazione da parte di altri autori.

Il risultato più alto, in termini di fusione di azione, intrigo spionistico, umorismo, ritmo incalzante dei dialoghi e love story, arriverà con Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959), uno dei capolavori assoluti dell'intera carriera di Hitchcock, che costituisce la vetta assoluta nella filmografia hitchcockiana come esempio di cinema teorico (nel ragionare sulla natura stessa del cinema, sui generi e sui possibili artifici della narrazione), eguagliato solo da La finestra sul cortile (Rear Window, 1954). Realizzato proprio nel bel mezzo del suo periodo d'oro, che va dal 1954 al 1963, Intrigo internazionale si lega a doppia mandata a Il club dei 39, in un gioco di sovrapposizioni, rime interne e impalpabili suggestioni.

Tra i tanti aspetti interessanti del plot, Il club dei 39 contiene per la prima volta un elemento che diventerà uno dei tratti distintivi del regista, ovvero il tema dell'uomo sbagliato costretto alla fuga, l'innocente perseguitato e accusato ingiustamente. Il protagonista, interpretato da Robert Donat («The British cinema's one undisputed romantic leading man in the 1930s», secondo il critico e storico Jeffrey Richards), è un uomo comune coinvolto, suo malgrado, in un intrigo più grande di lui, costretto ad aguzzare il proprio ingegno per portare a casa la pelle, posto al centro di un perfetto congegno narrativo che procede secondo un classico effetto domino, dove ogni suo tentativo di scagionarsi coincide con la nascita di un ulteriore impedimento nel dimostrare la verità. Un uomo così comune da non avere nemmeno un nome, che diventa una figura archetipica in perfetto contrappunto all'effimera duplicazione operata da Hitch in Intrigo internazionale, con Cary Grant/Roger Thornhill costretto a confrontarsi con George Kaplan, non-personaggio simbolico che rappresenta la summa dell'artificio hitchcockiano.

Nello stile tradizionale di Hitchcock, la scoperta dell'intrigo, sia che riguardi i "39 scalini" sia che riguardi l'identità di George Kaplan, è quasi un contorno alla vicenda del protagonista. È bellissimo perdersi nell'incantesimo messo a punto da Hitch, in cui la componente mystery si espande di fronte agli occhi dello spettatore, abbracciando la dimensione spionistica che a sua volta sfuma nella commedia, e il sottotesto thriller si trova vis-à-vis con una rocambolesca storia d'amore. Quello che conta è il coinvolgimento totale all'interno di quella che è una esperienza di visione pura. Tutta l'attenzione è focalizzata sul come e non sul cosa, in un tour-de-force narrativo che non concede un attimo di tregua. Sia che ci si trovi nella brughiera scozzese, sia che ci si trovi sulla cima del Monte Rushmore.

 

PSYCO: IL MOTEL È LA MENTE DI NORMAN BATES DOVE CONVIVONO EROS E THANATOS (Lorenzo Bianchi)

Inafferrabile, Psyco è uno dei capolavori del cinema che, anche dopo 60 anni dalla sua uscita nelle sale, non smette di porre interrogativi, regalare significati, donare nuove visioni, con quest’ultimo termine a ergersi come fil rouge universale nella filmografia di Alfred Hitchcock. Dopo l’enorme successo di Intrigo internazionale (1959), il regista rimane folgorato dalle pagine di Robert Bloch, a sua volta ispirato dalle vicende di Ed Gein, in un periodo in cui gli studi psicanalitici non erano sviluppati quanto lo sono oggi e in cui la mente di un serial killer rappresentava ancora di più un mistero. In tema di misteri, la vera domanda quindi è: chi è il protagonista di Psyco? Norman? Marion? Forse entrambi, magari nessuno dei due. Mistero.

Una giovane ragazza fugge con una somma di denaro e trova rifugio presso un Motel lungo la strada. Ad accoglierla, un giovane di bell’aspetto, di buone maniere, che, tuttavia, sembra nascondere qualcosa sotto la sua patina di gentilezza ostentata. Che sia attratto da lei? Senza dubbio, ma occorre fare un passo indietro, alle primissime sequenze del film, che si apre con Marion a letto con un uomo: in tempi di Codice Hays non fu facile far approvare questa sequenza (come molte altre, per ragioni differenti) che indubbiamente porta con sé la dimensione di Eros, per utilizzare il termine di Sigmund Freud. Sappiamo bene che la sua controparte, Thanatos, non tarderà ad arrivare. In proposito, lo stesso regista ha rivelato a François Truffaut in Il cinema secondo Hitchcock che «Janet Leigh non avrebbe dovuto portare il reggiseno» e che «questa scena sarebbe stata più interessante se il seno della ragazza si fosse strofinato contro il petto dell’uomo». Inoltre, Mauro Giori in Alfred Hitchcock - Psyco (Lindau, 2009) ha posto l’accento sull’«intrufolarsi voyeuristico della macchina da presa» nella camera da letto. Sarà solo il primo di tanti, in questo film, e a cambiare sarà solo il soggetto dello sguardo (da noi, a noi con Norman) ma non l’oggetto: lei.

Torniamo quindi a Norman Bates e al Motel, che può esser visto come la proiezione materiale e metaforica della sua psiche disturbata. E Hitchcock è quasi sadico nel giocare con lui, con lei e con noi, che osserviamo il tutto: in diverse occasioni ha spiegato la differenza che corre tra suspense e sorpresa e nel caso di Psyco è sorprendente come le applichi entrambe. Siamo portati a chiederci se Marion riuscirà a fuggire con i 40.000 dollari senza farsi prendere dalla polizia (suspense) ma non siamo pronti al fatto che venga uccisa così brutalmente nella celeberrima sequenza della doccia (sorpresa). Thanatos entra finalmente in scena, dopo esser rimasto represso per buona parte del film, e come introdurlo se non con un montaggio forsennato pensato per aggirare la censura e che, a posteriori, risulta una delle tante sequenze memorabili e rivoluzionarie del cinema hitchcockiano. Non sarà il primo omicidio, perché anche la morte di Arbogast, travestita da semplice atto violento funzionale alla trama, nasconde una metafora nei modi e nei luoghi in cui avviene: è come se lui fosse la coscienza che sale i gradini di una scala, ripida e faticosa; per questo li sale anche lentamente e quando si avvicina a scoprire la verità, la protezione di quest’ultima si avventa contro di lui, lo colpisce ripetutamente scaraventandolo sulla stessa scala mostrata pochi istanti prima, che ora si è trasformata in una discesa mortale.

Quindi, chi è il vero protagonista di Psyco?

La pellicola si apre a molteplici risposte, ma è plausibile pensare che i soldi della giovane non siano l’unico MacGuffin del film, anzi, che tutto l’intreccio sia un’enorme MacGuffin per mettere in mostra la vera protagonista dell’opera: la mente umana. Nello specifico, la mente di Norman Bates, che il suo Motel rappresenta in maniera efficace e quantomai simbolica, in cui convivono pulsioni erotiche (Eros), pulsioni di morte (Thanatos), voyeurismo, stanze segrete sotterranee dove nasconde(re) i (nostri? suoi?) segreti più profondi e inconfessabili, mascherati alla luce flebile di una finestra che mostra solo ciò che si desidera far vedere e che spesso trae in inganno.


GLI UCCELLI: SUONO E VISIONE NELL'ORRORE HITCHCOKIANO (Sara Barbieri)

«Gli uccelli ci vogliono ammazzare, mamma?»

Bodega Bay. Stormi impazziti di uccelli attaccano gli esseri umani, seminando morte e distruzione: al centro del caos, sconvolto e inebetito, un anomalo gruppo familiare formato da madre, figlio e flirt del figlio, il cosiddetto “terzo incomodo” che scuote l'animo tormentato di una genitrice estremamente possessiva.

Perché gli uccelli uccidono? La domanda è alla base stessa del film, quesito primario a cui non viene data una risposta.

Una novità per Alfred Hitchcock (che attinge dal racconto omonimo di Daphne Du Maurier, le cui pagine erano state di ispirazione già per Rebecca – La prima moglie), il cui concetto di suspense cinematografica solitamente chiede, pretende una spiegazione; nel caso specifico, però, Hitch scarta e alla suspense sostituisce l'orrore, un orrore apocalittico e devastante proprio perché insondabile. La Natura si ribella ai soprusi dell'uomo, o si tratta di una punizione divina, oppure l'ambiente esterno rispecchia le interiorità dei personaggi, prostrati da sentimenti contrastanti e da una perenne sensazione di abbandono. In ogni caso, per Hitchcock l'orrore è soprattutto una questione di sguardi e di suoni.

Esemplificativa in tal senso è la sequenza del ritrovamento, da parte di Lydia (Jessica Tandy), la madre, del cadavere di un conoscente agricoltore: è lo sguardo della donna, tramite un montaggio sempre più serrato e a progressivi stacchi sull'asse, che mostra l'abominio di un uomo cui sono stati cavati (non a caso) gli occhi. La macchina da presa perlustra gli oggetti della stanza, non più elevati a simbolo/prolungamento delle psicologie dei protagonisti (si pensi al coltello di Norman Bates/Anthony Perkins o alla macchina fotografica di Jeff Jefferies/James Stewart), bensì tracce premonitrici di una morte annunciata. E il suono, o meglio la sua assenza, amplifica l'angosciante urlo muto di Lydia, che altro non può fare se non darsi alla fuga. Un silenzio/suono va significativamente ad avvolgere anche il finale, dominato da uccelli che brulicano nell'inquadratura a circondare gli ormai sfiniti personaggi e votato, non poteva essere altrimenti, all'indeterminatezza. Perché, ricordate, «the next scream you hear may be your own».

 

MARNIE: LA PALETTE CROMATICA DELLA PSICHE (Simone Manciulli)

Una borsetta gialla: ecco il primo dettaglio che Alfred Hitchcock decide di mostrarci in apertura del film Marnie (1964). Fin dai primissimi fotogrammi viene suggerito allo spettatore quello che sarà un elemento ricorrente per tutto l’arco della narrazione: l’utilizzo di oggetti simbolici e di precise scelte cromatiche con lo scopo di tratteggiare il profilo psicologico dei personaggi. Stratagemma a cui il maestro del thriller ha già fatto ricorso nell’arco della sua carriera (basti pensare agli uccelli impagliati di Psyco) e che viene ancor più messo in luce attraverso una pellicola volta a indagare i traumi e gli impulsi sepolti nel subconscio dei suoi personaggi.

Le turbe di Marnie, protagonista eponima e ladra compulsiva, sono già tutte palesate in quel frame iniziale: il dettaglio insistito sulla borsa è un primo campanello d’allarme che, con un minimo di contesto, fa scattare l’associazione con l’atto del furto; la scelta cromatica della pochette non è causale poiché, nella sua accezione negativa, il giallo è accostato al concetto di follia. Un osservatore attento quindi non potrà mancare dal mettere in relazione questi due indizi, arrivando ad assumere la consapevolezza che gli impulsi cleptomani di Marnie affondano le proprie radici nelle profondità della sua psiche.
Proseguendo con la visione del film assistiamo a una scena in cui la nostra protagonista nasconde una chiave gialla: il simbolico rimando al concetto di “apertura” è lampante e l’insistere su questa peculiare scelta cromatica induce a pensare che ci sia un cassetto segreto, nascosto nel subconscio di Marnie, in attesa di essere aperto. Il colore giallo ritorna con prepotenza anche in un’altra scena: quella dello stupro della protagonista da parte di Mark Rutland (Sean Connery). Il marito di Marnie cede a quei torbidi impulsi a cui, fin a quel momento, aveva cercato di resistere, palesando la natura contaminata del suo amore feticista per la protagonista. Ancora una volta a dominare la scena è il giallo della vestaglia da notte di Rutland.

Altri colori vengono menzionati nell’arco della pellicola: il bianco, solitamente accostato a un’idea di purezza, rimanda al trauma infantile e alla conseguente perdita di innocenza di Marnie; il rosso è riconducibile invece alla violenza dell’omicidio, macchia indelebile che inquina il candore dell’infanzia. Altri due oggetti, dai toni verdastri, ritornano più volte nell’arco della pellicola: la cassaforte e il denaro.
Il verde, nella sua accezione negativa, può essere accostato al concetto di veleno: una sostanza inquinante che altera la pura essenza dell’Io. La cassaforte e l’atto di aprirla simboleggiano l’inconscia necessità della protagonista di far emergere quel passato traumatico che continua ad avvelenare il suo essere; questo continuo e compulsivo cambio di identità altro non è che un lento e perpetuo allontanamento di Marnie dal suo vero Io. Il denaro, invece - ce lo svela Rutland nel finale -, rappresenta un mero palliativo, un banale tentativo di sostituire una mancanza (in questo caso amore e affetto materno) con un oggetto che però, proprio a causa della sua essenza materiale, non potrà mai andare a colmare quel vuoto che Marnie sente dentro di sé.


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