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Tim Burton: l'espressionista di Burbank
«Vincent Malloy is seven years old
He’s always polite and does what he’s told
For a boy his age, he’s considerate and nice
But he wants to be just like Vincent Price»


L’incipit di Vincent (1982), poesia e biglietto da visita di Tim Burton, che nella rappresentazione visiva dell’opera, realizzata in stop motion racchiude tutta la poetica del regista. E quanto il cinema espressionista lo abbia profondamente influenzato. Il piccolo Vincent che sogna di essere Vincent Price è il primo doppio della filmografia burtoniana, in cui l’apparenza dell’innocenza infantile si contrappone ad un animo tormentato, con impossibilità di trovare un punto di incontro tra le due dimensioni. Del resto, lo stesso Burton non ha mai nascosto di essere attratto dagli «opposti che compongono la nostra esistenza: la vita e la morte, la luce e il buio. Non siamo il prodotto di questi contrasti» (M. Spagnoli, Tim Burton: anatomia di un regista cult, Memori, Roma, 2006).


Lungo la filmografia di Tim Burton, infatti, la tematica del doppio è ricorrente ed estremamente rilevante, sia che si tratti dei suoi personaggi, sia degli ambienti. Vincent è stato il primo, autobiografico anche più di Edward mani di forbice, che a conti fatti è l’altra faccia di Burton (come, in un certo senso, lo è stato Johnny Depp), ma lo stesso discorso vale per Ed Wood, in cui il protagonista amava travestirsi da donna, o per lo stesso Jack Skellington, diviso nella sua natura. Alice in Wonderland e La Sposa Cadavere sono esempi perfetti di come queste riflessione sul doppio si sposti negli ambienti, in cui il mondo “sotto” diventa lo specchio del mondo “sopra”, con l’accento posto sul fatto che la prospettiva viene totalmente ribaltata e che gli inferi sono molto più allegri e colorati del mondo cosiddetto dei vivi, come in Beetlejuice. Lo stesso discorso non vale per il cavaliere senza testa di Sleepy Hollow che, comunque, proviene da un altro mondo e in cui la tematica del doppio non fatica ad emergere.


Non è quindi un caso che tra i primi film ad alto budget per il regista ci sia Batman, prodotto dalla Warner Bros., ma è soprattutto il sequel, Batman – Il ritorno ad essere interessante nell’ottica espressionista. Se Bruce Wayne/Batman incarna alla perfezione la tematica del doppio e della maschera, con l’ingresso in scena di Selina Kyle/Catwoman, Oswald Cobblepot/Pinguino e Max Shrek il discorso si completa ulteriormente, arricchendosi di elementi che, implicitamente ed esplicitamente, omaggiano il cinema espressionista. Per questo è interessante notare come il vero cattivo del film sia l’industriale Max Shrek (Christopher Walken), che porta il nome, pur scritto diversamente, dell’attore tedesco Max Schreck, che nel 1922 fu il Conte Orlok per Friedrich Wilhelm Murnau in Nosferatu – Il vampiro. L’industriale è a conti fatti un mostro che si nutre del sangue e dei soldi dei cittadini di Gotham, diventando sempre più ricco, anche a costo della vita di chi si oppone a lui. Chi è veramente un mostro, deforme e per questo emarginato sin dalla nascita, è invece Oswald Cobblepot, Il Pinguino, che Burton ha deciso di rappresentare in modo che ricordi il portagonista de Il gabinetto del dottor Caligari: Danny DeVito è strepitoso, interopretando un personaggio dilaniato tra la sua vera natura e il desiderio di “normalità”.



Tuttavia, tra le sequenze più significative del film c'è quella in cui alla festa in maschera gli unici a presentarsi in abito di gala sono Bruce Wayne e Selina Kyle: quelle sono le loro maschere, il doppio socialmente accettato di Batman e Catwoman, la loro vera natura, che va tenuta celata. 

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