Dostoevskij
Durata
279
Formato
Regista
In un lasso di terra scarno e inospitale, il poliziotto Enzo Vitello (Filippo Timi), uomo dal buio passato, è ossessionato da “Dostoevskij”, killer seriale che uccide con una peculiarità: accanto al corpo l'omicida lascia sempre una lettera con la propria desolante e chiarissima visione del mondo, della vita e dell’oscurità che Vitello sente risuonare al suo interno.
I fratelli D’Innocenzo realizzano una miniserie per Sky Original che è anche un film di 5 ore. Un thriller seriale dalle tinte macabre, un noir televisivo à la True Detective, si potrebbe dire, oppure un’opera fiume, una bibbia dell’immaginario dei gemelli cineasti. Già nella sua natura duplice, si legge la singolarità di quest’opera, più vicina a un’operazione artistica, a un manifesto stilistico che a un prodotto industriale. Le indagini del tormentato Vitello, uomo consumato dai sensi di colpa, interpretato da un livido Filippo Timi, si svolgono in grandi spazi di provincia abbandonati e depressi, in una frontiera lagunare senza punti di riferimento. Fatiscenti architetture del dopoguerra, casolari incrostati dal salmastro, palazzi brutalisti desolanti e mai monumentali. Un’area grigia e oscura a metà tra la Lousiana e quella America latina al centro del precedente film dei fratelli, con la differenza che ora anche le inflessioni dialettali scompaiono, privando di una vera identità locale sia i luoghi che i personaggi. L’antieroe, incapace di ricucire un rapporto di amore e (soprattutto) odio con la figlia Ambra (Carlotta Gamba), trova una nuova spinta nell’ossessione per il killer Dostoevskij, mentre sviluppa una dannosa rivalità con il più giovane e zelante collega poliziotto Fabio Bonocore, interpretato da Gabriel Montesi, ormai maschera dei D’Innocenzo. Sarà capace di affrontare i suoi demoni solo terminando questa lunga catabasi, lasciandosi trasportare verso il fondo dell’abisso. Il tutto è fotografato su una pellicola Super 16 estremamente palpabile, dove i corpi, i tagli e le ferite si confondo con le imperfezioni del negativo. Sceneggiatura, regia e montaggio si alternano perfettamente senza soluzione di continuità, andando a comporre un grande affresco unitario dove l’estro dei gemelli è portato ad un nuovo estremo rispetto ai precedenti lavori. È un cinema sempre più tangibile e fisico quello dei D’Innocenzo, che si prende i suoi tempi, andando in totale controtendenza all’odierno audiovisivo digitale. Un prodotto che va consumato con estrema cautela, ad alto rischio di indigestione per gli organismi non ancora educati.
I fratelli D’Innocenzo realizzano una miniserie per Sky Original che è anche un film di 5 ore. Un thriller seriale dalle tinte macabre, un noir televisivo à la True Detective, si potrebbe dire, oppure un’opera fiume, una bibbia dell’immaginario dei gemelli cineasti. Già nella sua natura duplice, si legge la singolarità di quest’opera, più vicina a un’operazione artistica, a un manifesto stilistico che a un prodotto industriale. Le indagini del tormentato Vitello, uomo consumato dai sensi di colpa, interpretato da un livido Filippo Timi, si svolgono in grandi spazi di provincia abbandonati e depressi, in una frontiera lagunare senza punti di riferimento. Fatiscenti architetture del dopoguerra, casolari incrostati dal salmastro, palazzi brutalisti desolanti e mai monumentali. Un’area grigia e oscura a metà tra la Lousiana e quella America latina al centro del precedente film dei fratelli, con la differenza che ora anche le inflessioni dialettali scompaiono, privando di una vera identità locale sia i luoghi che i personaggi. L’antieroe, incapace di ricucire un rapporto di amore e (soprattutto) odio con la figlia Ambra (Carlotta Gamba), trova una nuova spinta nell’ossessione per il killer Dostoevskij, mentre sviluppa una dannosa rivalità con il più giovane e zelante collega poliziotto Fabio Bonocore, interpretato da Gabriel Montesi, ormai maschera dei D’Innocenzo. Sarà capace di affrontare i suoi demoni solo terminando questa lunga catabasi, lasciandosi trasportare verso il fondo dell’abisso. Il tutto è fotografato su una pellicola Super 16 estremamente palpabile, dove i corpi, i tagli e le ferite si confondo con le imperfezioni del negativo. Sceneggiatura, regia e montaggio si alternano perfettamente senza soluzione di continuità, andando a comporre un grande affresco unitario dove l’estro dei gemelli è portato ad un nuovo estremo rispetto ai precedenti lavori. È un cinema sempre più tangibile e fisico quello dei D’Innocenzo, che si prende i suoi tempi, andando in totale controtendenza all’odierno audiovisivo digitale. Un prodotto che va consumato con estrema cautela, ad alto rischio di indigestione per gli organismi non ancora educati.