Fish Tank
Fish Tank
Durata
123
Formato
Regista
Mia (Katie Jarvis) è una quindicenne disadattata e senza amici. Espulsa dalla scuola a causa della sua aggressività, ha una sola vera passione: l'hip-hop. I conflitti familiari che la tormentano si trasformeranno in rivalità con l'arrivo in casa del nuovo fidanzato della madre (Kierston Wareing), Connor (Michael Fassbender).
Premio della giuria a Cannes nel 2009, il film è il secondo lungometraggio della regista britannica Andrea Arnold: l'autrice si allontana dal suo lavoro precedente, Red Road (2006), avvicinandosi in maniera più smaccata al cinema di denuncia sociale che strizza l'occhio a Ken Loach. Pur partendo da un soggetto non originalissimo (la ragazza ribelle, il conflitto madre/figlia, la danza come unico mondo nel quale rifugiarsi), quello che rende interessante il film della Arnold è la messa in scena, formalmente libera e fluttuante, che investe anche i personaggi: figure fluide, in cui i confini tra un carattere e l'altro sfumano e tutti esibiscono una certa immaturità di fondo, che li avvicina nelle perversioni e nei disagi, generando affinità elettive e sotterranee, improntate a un magnetismo non indifferente e molto affascinante. La macchina da presa è, a conti fatti, uno sguardo in soggettiva della ragazza protratto all'infinito: attraverso le sue azioni si costruisce, per deduzione e gemmazione, un buon impianto narrativo, che esplora un intero mondo, la periferia, e lo contrappone nel finale al suo opposto, quello di una villetta a schiera e di una famiglia apparentemente serena. I cambiamenti di stati d'animo sono resi esclusivamente con dei delicati ralenti e delle belle inquadrature, mentre pochissimi sono gli effetti scenici: la mano della regista è decisamente distaccata, come a far parlare soltanto luoghi e azioni. Peccato che la tensione e l'intensità sfumino e vengano meno in un finale nel quale la Arnold lascia spazio a un sentimentalismo tout-court piuttosto fuori luogo.
Premio della giuria a Cannes nel 2009, il film è il secondo lungometraggio della regista britannica Andrea Arnold: l'autrice si allontana dal suo lavoro precedente, Red Road (2006), avvicinandosi in maniera più smaccata al cinema di denuncia sociale che strizza l'occhio a Ken Loach. Pur partendo da un soggetto non originalissimo (la ragazza ribelle, il conflitto madre/figlia, la danza come unico mondo nel quale rifugiarsi), quello che rende interessante il film della Arnold è la messa in scena, formalmente libera e fluttuante, che investe anche i personaggi: figure fluide, in cui i confini tra un carattere e l'altro sfumano e tutti esibiscono una certa immaturità di fondo, che li avvicina nelle perversioni e nei disagi, generando affinità elettive e sotterranee, improntate a un magnetismo non indifferente e molto affascinante. La macchina da presa è, a conti fatti, uno sguardo in soggettiva della ragazza protratto all'infinito: attraverso le sue azioni si costruisce, per deduzione e gemmazione, un buon impianto narrativo, che esplora un intero mondo, la periferia, e lo contrappone nel finale al suo opposto, quello di una villetta a schiera e di una famiglia apparentemente serena. I cambiamenti di stati d'animo sono resi esclusivamente con dei delicati ralenti e delle belle inquadrature, mentre pochissimi sono gli effetti scenici: la mano della regista è decisamente distaccata, come a far parlare soltanto luoghi e azioni. Peccato che la tensione e l'intensità sfumino e vengano meno in un finale nel quale la Arnold lascia spazio a un sentimentalismo tout-court piuttosto fuori luogo.