In Messico, un pittore di cui non sappiamo neanche il nome (Alejandro Ferretis) ha scelto di porre fine alla sua vita e si rifugia sulle montagne del paese, alla larga da qualsiasi contatto con la routine quotidiana, per isolarsi e portare a termine il suo proposito suicida.

L'esordio nel lungometraggio del messicano Carlos Reygadas, Camera d'or come miglior opera prima al Festival di Cannes nel 2002, è la presa diretta, estremamente realistica e cocciutamente ostile allo spettatore, di una disperazione esistenziale, raccontata con uno stile registico che sottrae e sottrae fino ad irritare oltre ogni misura, con un chiaro occhio a Tarkovskij ma con molta meno profondità e sostanza, oltre che con tanta prolissità in più. Che s'accompagna, oltretutto, a un formalismo ruvido, il più delle volte autoreferenziale. La radicalità di Reygadas raramente ripaga chi guarda e il regista, che pure ha talento nei movimenti di macchina e una non comune capacità di gestione degli spazi, si cimenta anche in premeditate e poco giustificate provocazioni di stampo sessuale, riversate sullo spettatore giusto per generare presunti scandali privi di costrutto. Il rifiuto dello spazio urbano da parte del protagonista, analogamente, è più un pretesto che un reale motore drammaturgico, con tutto ciò che di automatico e prevedibile ne può derivare. Repertorio musicale notevole (Arvo Pärt, Dmitrij Å ostakoviÄ e Johann Sebastian Bach).
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