Riko (Stefano Accorsi) ha un lavoro che non lo soddisfa e delle ambizioni represse che lo rendono un uomo frustrato, che non sa bene dove indirizzare la sua rabbia. Nemmeno i rapporti con la moglie Sara (Kasia Smutniak) vanno per il meglio e a Riko non resta che contare sulle proprie forze, su un gruppo di amici che in fondo gli sta ancora accanto e sull’affetto del figlio.

Terzo film da regista del cantante Luciano Ligabue, che dopo Radiofreccia (1998) e Da zero a dieci (2002) si concede un’opera terza a sedici anni di distanza dalla sua ultima volta dietro una macchina da presa. Un ritorno, tuttavia, tutt’altro che felice, perché Made in Italy, ispirato nella colonna sonora e nell’ideazione al concept album omonimo dello stesso Ligabue, è un fragoroso fallimento nelle idee, nella forma e nei contenuti, che conferma appieno la pochezza e la velleità già mostrata dal rocker di Correggio con la regia di Da zero a dieci, sequel ideale del precedente e ben più fortunato Radiofreccia. Siamo di fronte a un minestrone indigesto di spunti mal assortiti che vorrebbero raccontare la crisi politica e sociale dell’Italia di oggi, ma che finiscono col risultare un miscuglio avariato di populismo ambiguo, sbalestrate derive mélo e sequenze dal dubbio e confuso impatto etico ed estetico (su tutte quella del corteo di manifestanti sull’articolo 18, nel quale i protagonisti si infilano come si entrerebbe a un ufficio postale). Il film è ovviamente tappezzato dalle canzoni dell’album omonimo, fioccano le strizzatine d’occhio che vorrebbero suggerire l’idea di un istant movie ma sanno già di anacronismo (lo spread!) e il tentativo di lambire l’attualità è tanto ammiccante e urlato quanto farraginoso e fastidioso. Sconcertanti anche i picchi di recitazione verso il basso di Accorsi, una sorta di Freccia ai tempi della crisi caratterizzato pochissimo in sede di scrittura, e di Smutniak (apice scult la scena della zuppa sulle note di Song to the Siren), per non parlare dei sorrentinismi della regia nel filmare Roma. Di rado, nel cinema italiano, si è assistito a un racconto di frustrazione più sfilacciato, pretestuoso e di grana grossa, nel quale non si contano le scene scollegate e insensate rispetto al discutibile disegno complessivo e le battute e gli snodi risibili e posticci (finale compreso, dove si scomoda addirittura Cesare Pavese e il suo “Un paese ci vuole” …).
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