Nicola (Ascanio Celestini) è nato nei favolosi anni Sessanta ed è vissuto in una famiglia particolare: la madre è internata in un ospedale psichiatrico, il padre (Nicola Rignanese) è severo con lui e la nonna (Barbara Valmorin), a cui è molto legato, è una semplice contadina. Disorientato dalla mancanza di riferimenti, si troverà a passare sempre più tempo nella casa di cura dove è ricoverata la mamma.

Ascanio Celestini porta la sua opera teatrale omonima sul grande schermo, puntando allo stile sognante e a tratti assurdo che lo contraddistingue e fondendo una trama poetica con un excursus sull'approccio italiano alla malattia mentale dagli anni Sessanta a oggi. La trasposizione, interessante solo a tratti, non riesce però a emanciparsi dal legame con il teatro e ne sconta il passaggio, evidente nei monologhi di commento e nella canzone ripetuta come un mantra. La regia non prende una posizione netta sul percorso che intende perseguire, se la follia nascosta nella società o se l'analisi della situazione delle case di cura, e resta in bilico perdendo l'occasione di fondere un cinema di denuncia con la poesia di una visione alternativa. Alcuni dialoghi, però, colpiscono nel segno e il ritmo è più che discreto. Presentato in concorso alla 67ª Mostra di Venezia.
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