Pepote (Pablito Calvo), orfano di sette anni, vive insieme a suo zio Giacinto (Antonio Vico), di cui è molto affezionato. Quest'ultimo, un ex torero malandato, è rimasto senza lavoro da qualche tempo: quando gli viene proposto di tornare nell'arena, Giacinto accetta ma non ha più i soldi per poter acquistare un nuovo abito da torero.

Dopo il successo di Marcellino pane e vino (1955), Ladislao Vajda torna a dirigere il piccolo Pablito Calvo in un ruolo che ricorda proprio quello interpretato in precedenza. Coproduzione italo-spagnola, Pepote (conosciuto in Italia anche con il titolo Mio zio Giacinto) è un film dai buoni sentimenti che sembra ispirarsi ad alcune storie del neorealismo italiano, Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica in primis. Vajda gioca un po' di maniera ed eccede nella retorica: alcuni spunti sono sinceri (lo zio che, nonostante la miseria in cui vive, ha sempre tenuto Pepote lontano dalla criminalità), ma si perdono in un quadro complessivo incerto e banale. Il finale, però, emoziona al punto giusto.
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