L'integerrimo presidente di un tribunale (Richard Christensen) è chiamato a gestire un complesso caso di coscienza: a essere sottoposta al suo giudizio è la figlia illegittima, condannata a morte per infanticidio. Nella sventurata sorte della ragazza egli vede rivivere il destino di altre donne, ripudiate dalla sua famiglia perché di basso livello sociale.

Primo lungometraggio diretto dall'allora trentenne Carl Theodor Dreyer, dopo un promettente inizio di carriera come giornalista e un apprendistato nel mondo del cinema come montatore e sceneggiatore. Già in questa prima opera, perfettamente compiuta sul piano formale sebbene appesantita da qualche eccesso melodrammatico, è possibile individuare molti dei temi e dei motivi che costituiranno la poetica di uno dei massimi autori della storia del cinema: l'attenzione per i personaggi femminili, la denuncia di opprimenti schemi socio-culturali di limitazione della volontà individuale, l'estrema cura per il dettaglio nella messa in scena. Particolarmente sorprendente la struttura narrativa del film, molto complessa e costruita sul ricorrere di numerosi flashback che intrecciano tre generazioni di personaggi. Sul piano estetico, le maggiori influenze sono rintracciabili nelle pitture di Vilhelm Hammershøy e James Whistler, con ieratiche figure femminili spesso immortalate di profilo e statiche composizioni di interni.
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