Put Your Soul on Your Hand and Walk

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Aprile 2024: una regista iraniana in esilio, Sepideh Farsi, mentre gira il mondo per presentare il suo ultimo film, entra in contatto con una giovane fotoreporter di Gaza, Fatma Hassona. Tra le due donne nasce un intenso rapporto fatto di lunghe, ma sempre precarie, videochiamate e di altre preziose testimonianze: fotografie, brevi video, registrazioni sonore dei bombardamenti, poesie e piccoli testi. Con il suo inglese incerto, la ragazza di 24 anni aggiorna la macabra contabilità di parenti e amici uccisi, racconta la difficoltà di trovare cibo o di ricaricare un cellulare, l’assurdità di dover allontanarsi continuamente da quel che resta della propria casa per spostarsi in un’altra zona della Striscia. Parla anche dei suoi desideri di viaggiare, ma senza abbandonare definitivamente la propria patria. Dopo esattamente un anno arriva una grande novità: il film che le due donne stanno costruendo insieme viene ammesso al Festival di Cannes, sezione ACID, e si comincia a discutere concretamente della possibilità per Fatma di lasciare Gaza. Ma, come nelle sceneggiature più crudeli, proprio la notte del 16 aprile 2025 una bomba israeliana colpisce la casa della ragazza, uccidendo lei e molti membri della sua famiglia.

È davvero difficile dare una valutazione pienamente obiettiva di quest'opera. Come nel contemporaneo La voce di Hind Rajab, che resta pur sempre un film di finzione, per quanto in strettissimo rapporto con la realtà, anche qui tutta la violenza rimane fuori campo, affidata ai racconti di una giovane donna che, malgrado tutto, continua a sorridere. Fatma offre agli spettatori uno sguardo diretto sul livello di distruzione che la circonda e descrive, con una ripetitività quasi noiosa, la “banalità del male” cui è sottoposto il suo popolo. Con una determinazione sorprendente, sfida la morte per riprendere immagini dei suoi connazionali che tentano di sopravvivere tra le macerie. Nel finale la regista non cerca mai enfasi né retorica, e il film si chiude come un dialogo spezzato che, oltre a testimoniare la devastazione della guerra, diventa un atto di resistenza condivisa, un gesto di memoria che restituisce a Fatma una voce che altri avrebbero voluto cancellare. Raccontare la sua storia, con un nome e un volto, finisce così per rappresentare simbolicamente tutte quelle decine di migliaia di vittime di cui non conosciamo nulla e che non hanno potuto lasciare traccia di sé.


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