Il tempo dei cavalli ubriachi
Zamani barayé masti asbha
Durata
80
Formato
Regista
La vita non è facile per Ayoub (Ayoub Ahmadi), adolescente curdo iraniano che deve mantenere la numerosa famiglia dopo la morte di entrambi i genitori e provvedere alle cure per il fratello Madi (Madi Ekhtiar-dini), affetto da nanismo e deformità che gli provocano attacchi dolorosi.
Esordio alla regia di Bahman Ghobadi, Il tempo dei cavalli ubriachi detiene anche il primato di prima pellicola curda a essere prodotta in Iran. Dal taglio asciutto e quasi documentaristico, descrive con grande realismo la vita difficile della comunità curda iraniana al confine con l'Iraq, alle prese con un territorio ostile, il dramma delle mine antiuomo e un clima rigidissimo, elementi che rendono quasi impossibile lavorare. Le vicende della famiglia di Ayoub sono senza via d'uscita apparente: persino il matrimonio della sorella maggiore (Rojin Younessi) non porterà ai risultati sperati e la responsabilità di pagare per l'intervento al fratello resterà sulle fragili spalle del ragazzino. Storia di un'infanzia negata, dunque, ma più in generale racconto neorealista di un'esistenza passata ai limiti della sopravvivenza, a lottare tra gelo e povertà, eppure ostinata e caparbia come gli arbusti che si aggrappano alle aride rocce. Il ritmo è lento e ripetitivo come le giornate disperate di Ayoub e della sua famiglia, senza concessioni ad alcun momento di distensione: tutto sembra predestinato e solo il finale aperto lascia un piccolo spiraglio alla speranza. Un documento prezioso e un affresco di memorabile crudezza, indebolito nella versione italiana da un doppiaggio posticcio e a tratti insopportabile. Molto apprezzato dalla critica, vinse la Caméra d'or per la miglior opera prima al Festival di Cannes, oltre a numerosi altri riconoscimenti. Il titolo fa riferimento all'abitudine di far ubriacare cavalli e muli per permettere loro di sopportare carichi onerosi e di resistere al gelo.
Esordio alla regia di Bahman Ghobadi, Il tempo dei cavalli ubriachi detiene anche il primato di prima pellicola curda a essere prodotta in Iran. Dal taglio asciutto e quasi documentaristico, descrive con grande realismo la vita difficile della comunità curda iraniana al confine con l'Iraq, alle prese con un territorio ostile, il dramma delle mine antiuomo e un clima rigidissimo, elementi che rendono quasi impossibile lavorare. Le vicende della famiglia di Ayoub sono senza via d'uscita apparente: persino il matrimonio della sorella maggiore (Rojin Younessi) non porterà ai risultati sperati e la responsabilità di pagare per l'intervento al fratello resterà sulle fragili spalle del ragazzino. Storia di un'infanzia negata, dunque, ma più in generale racconto neorealista di un'esistenza passata ai limiti della sopravvivenza, a lottare tra gelo e povertà, eppure ostinata e caparbia come gli arbusti che si aggrappano alle aride rocce. Il ritmo è lento e ripetitivo come le giornate disperate di Ayoub e della sua famiglia, senza concessioni ad alcun momento di distensione: tutto sembra predestinato e solo il finale aperto lascia un piccolo spiraglio alla speranza. Un documento prezioso e un affresco di memorabile crudezza, indebolito nella versione italiana da un doppiaggio posticcio e a tratti insopportabile. Molto apprezzato dalla critica, vinse la Caméra d'or per la miglior opera prima al Festival di Cannes, oltre a numerosi altri riconoscimenti. Il titolo fa riferimento all'abitudine di far ubriacare cavalli e muli per permettere loro di sopportare carichi onerosi e di resistere al gelo.