Two Prosecutors
Two Prosecutors
Durata
118
Formato
Regista
Nell'URSS del 1937, dentro la gelida prigione di Bryansk, sono detenuti tantissimi prigionieri politici, accusati di crimini “anti-socialisti” e “anti-rivoluzionari”. Il giovane procuratore Kornev (Alexander Kuznetsov) fa visita al detenuto Stepniak (Alexander Filippenko), autore di una lettera, per poi recarsi a Mosca dal procuratore generale Vishynsky (Anatoly Beliy) per denunciare i crimini commessi dall'NKVD, il Commissariato del popolo per gli affari interni, macchiatosi di terribili abusi e torture.
Di ritorno alla fiction per il suo quinto film non documentaristico, il grande cineasta ucraino Sergei Loznitsa, che aveva esordito nel cinema di finzione nel 2010 col suo My Joy, ci catapulta senza mezzi termini (e anche senza esclusione di colpi) nella Russia delle purghe staliniane, adattando il romanzo omonimo di Gueorgui Demitov, fisico ed ex detenuto dei gulag. Seguendo il percorso di un procuratore fresco di nomina, che chiede di incontrare un prigioniero vittima degli agenti corrotti della polizia segreta, il film si propone come un controllatissimo e stringato tour de force nella maglie di un potere feroce e ottuso, contraddistinto da un’estrema brutalità nella repressione del dissenso. Impossibile non scorgere, nelle modalità di coercizione dell’epoca, elementi d’attualità che rimandano al presente putiniano della Russia contemporanea, specie dopo l’esplosione del conflitto-russo ucraino, che lo stesso Loznista aveva largamente anticipato . Abituato a oscillare senza requie tra il doc e la fiction, il cineasta, reduce da The Invasion (2024), in cui raccoglieva scene quotidiane dell’Ucraina durante la guerra, costruisce un ulteriore tassello della sua esplorazione delle macerie del blocco sovietico, non risparmiando stoccate profonde alla storia del comunismo, alle sue storture alla sua idiosincrasie (specie nell’applicazione della giustizia terrena) e senza arretrare nemmeno al cospetto dei busti di Lenin rispetto alla sua sua scure critica e iconoclasta. Molte le sequenze degne di nota, con un uso capillare, controllassimo e quasi sempre pressoché pittorico e simmetrico dell’immagine, tanto che ogni scena pare avere alle spalle un preciso, elegantissimo studio estetico-formale. Peccato però che il disegno d’insieme appaia a tratti troppo irrigidito, anche rispetto alla durezza che racconta, penalizzato da una scrittura un po’ rozza e prevedibile e da dialoghi talvolta assemblati senza troppo sforzo nel renderli verosimili, quasi come fossimo davanti a una rielaborazione automatica e robotica della realtà storica. Notevoli, a ogni modo, tutto il cast e la portata della denuncia storico-politica e tutt’altro che trascurabile, al netto talvolta di un esubero di stilizzazione, anche il lavoro compositivo sui campi lunghi, sulla profondità di campo e più in generale sui singoli dettagli, mentre l’approccio generale - oscillante tra il meccanico e l’astratto - può ricordare il cinema più tardo del maestro portoghese Manoel De Oliveira, creando anche una tessitura visiva (in uno stretto 1.33: 1) ma letteraria e paranoica, che non sarebbe affatto dispiaciuta a Franz Kafka. A proposito del suo esordio lo stesso Loznista aveva dichiarato, con delle parole che si applicano perfettamente anche al proseguo della sua filmografia: «Volevo fare un film d'amore, ma come succede spesso con i russi, qualunque sia il tuo progetto, finisci con un kalashnikov». Presentato in Concorso al Festival di Cannes 2025.