Un lungo viaggio nella notte

Diqiu zui hou de ye wan

Anno

Paese

Durata

118

Formato

Regista

Un uomo (Huang Jue) torna con la memoria al suo passato, provando a ritrovare una donna (Tang Wei) con cui aveva avuto una relazione circa vent’anni prima. I ricordi, però, si mescolano con la sua immaginazione e seguire le tracce della ragazza un tempo amata potrebbe essere più complesso del previsto.

Opera seconda del regista cinese Bi Gan, dopo il sorprendente Kaili Blues (2015), di cui riprende diversi stilemi, ma con un budget più alto e soprattutto un’ambizione spropositata. Si apre come un noir classico questo Un lungo viaggio nella notte, con la voce narrante di un uomo che ripensa alla donna amata, mentre il tempo esplicitamente si ferma (sotto forma di orologi rotti) in una sorta di flusso di coscienza che mescola Joyce, Proust (Alla ricerca del tempo perduto) e la mitologia greca (il labirinto con il Minotauro, da cui si fugge volando). Decisamente troppa la carne al fuoco, anche se è quasi impossibile non riscontrare un certo fascino nella prima parte dell’operazione, valorizzata da ottimi giochi di luce e di ombre, oltre che da una narrazione coinvolgente e da riferimenti dal sapore hitchcockiano (il vestito verde de La donna che visse due volte; la sparatoria in un cinema come in Sabotatori), forse non sempre consapevoli. Se questa ricerca iniziale (recherche?) trova una chiave drammaturgica interessante, il film cambia improvvisamente registro, offrendo un piano-sequenza finale di quasi un’ora in cui il virtuosismo (tra l’altro, neanche troppo stupefacente) la fa da padrone, trascurando ogni ragionamento narrativo con la scusa che siamo (?) dentro un sogno. Il protagonista infatti si addormenta di fronte a un film in un cinema («i ricordi possono essere veri o falsi, ma il cinema è sempre falso», viene detto) e da lì Bi Gan cede all’autocompiacimento, portando gli spettatori a indossare gli occhiali in 3D, con un trucchetto che può essere divertente ma che lascia il tempo che trova se si vuole andare oltre questa forma di “sperimentazione”. La stereoscopia è infatti posticcia, il piano-sequenza, che propone droni e scelte visive di dubbio gusto, è solo uno specchietto per le allodole, tanto che la sensazione finale è quella di essersi trovati di fronte un’opera dalle grandi potenzialità, ma non sfruttate del tutto a dovere. Resta un’esperienza curiosa, ma allo stesso tempo capace di soddisfare solo a metà: se avesse fatto un po’ meno in termine di ambizione e rischio, Bi Gan avrebbe ottenuto migliori risultati. Presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2018.
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