West of Babylonia

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82

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Nella porzione californiana del deserto del Sonora, su una vecchia base militare abbandonata, sorge il villaggio abusivo di Slab City. Centinaia di patrioti, religiosi, neonazisti e artisti popolano le roulotte e i camper del posto, vivendo ai margini della civiltà, senza leggi né servizi. Le loro giornate scorrono tra giochi, musica, droghe e l’attesa del prom annuale: uno stile di vita all’insegna della libertà e della definizione di un’America diversa attraverso una nuova idea di West.

West of Babylonia, esordio alla regia per l’italiano Emanuele Mengotti, è un interessante esperimento di indagine sulla cultura statunitense. Mosso dal desiderio di osservare e comprendere la società americana, Mengotti trova in Slab City una realtà paradossale quanto emblematica: in seno alla cosiddetta patria della libertà esiste un luogo che si fregia del titolo di «ultimo posto libero». Una ricorsività nevrotica che genera un cortocircuito nel sogno americano, rivelandone le contraddizioni più profonde. Nati dal massacro dei nativi americani e dal mito della conquista dell’Ovest, gli Stati Uniti si sono trovati più volte a fare i conti con le proprie origini. Dall’istinto di domare quella wilderness percepita come ostile si sono originati quel capitalismo e consumismo imperanti che hanno spinto gli abitanti di Slab City a fuggire per tornare al punto di partenza: il contatto proprio con la natura selvaggia e incontaminata da cui tutto è iniziato. Così il mito viene riscritto. L’Ovest – che, come suggerisce il titolo, è anche la posizione geografica in cui si trova Slab City rispetto alla nuova Babilonia americana – non è più terra di conquista, bensì uno spazio dove poter ridefinire una nuova identità americana, più vicina al “buon selvaggio”, senza però rinnegare i simboli e le tradizioni nazionali. Mengotti si approccia a questa comunità con sguardo vergine, scegliendo di non intervistare i suoi protagonisti e lasciando loro la libertà di raccontarsi. Seguendoli nelle attività quotidiane e alternando primi piani alle panoramiche del vasto deserto – esaltato dalla fotografia di Marco Tomaselli – il regista scompare dietro la macchina da presa, lasciando che l’umanità degli abitanti di Slab City emerga da sé in un’operazione naturalista in sintonia con lo spirito del luogo in cui si ambienta.



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