Lo zio di Brooklyn
Durata
98
Formato
Regista
In una Palermo che si presenta come una specie di macrocosmo livido, una famiglia di cinque fratelli è costretta da due mafiosi (Ernesto Gattuso e Giuseppe Di Stefano) a ricevere uno zio misterioso e taciturno proveniente dall'America, un vecchio boss mafioso identico a Eduardo De Filippo (Salvatore Gattuso).
L'esordio al cinema dei registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco, la cui fama come registi e autori televisivi e di documentari era già stata cementificata con alcune retrospettive in festival quali Prato e Taormina. Lo zio di Brooklyn è un'opera prima che poggia tutta su coordinate inaccettabili e rivoluzionarie per i modesti orizzonti del cinema italiano degli anni Novanta, e con una convinzione già solida e invidiabile dei propri mezzi espressivi (il bianco e nero, la struttura spezzata, l'uso espressionista di corpi deformi e scenari post-umani), con un estremismo che non guarda in faccia nessuno. La pellicola è il degno riversarsi di uno stile già ampiamento noto e apprezzato nell'epocale spazio televisivo di Cinico Tv (palestra in cui i due autori hanno forgiato il loro sguardo), stile che sopravvive in un film che non risparmia nulla delle asperità e delle controversie cui i loro spezzoni televisivi avevano già abituato gli spettatori. La Palermo di Ciprì e Maresco è uno spazio incolto, nel senso sia della terra che della cultura, e inclassificabile, in cui i corpi appaiono imprigionati dentro una prostrazione ossessiva, masturbatoria e miserabile, respingente e priva di senso, eppure aperta a residui di compassione, con «periferie urbane e degradate, ricolme di macerie e scarti industriali eppure toccate da una grazia ruvida e irriducibile» (Nicola Lagioia). Lo zio Brooklyn, nel suo insistere sul torbido e sull'inquieto, sublima i frammenti di Cinico Tv e se ne fa scudo, organizzandoli in un disegno complessivo e caotico ma al tempo stesso lucidissimo.
L'esordio al cinema dei registi palermitani Daniele Ciprì e Franco Maresco, la cui fama come registi e autori televisivi e di documentari era già stata cementificata con alcune retrospettive in festival quali Prato e Taormina. Lo zio di Brooklyn è un'opera prima che poggia tutta su coordinate inaccettabili e rivoluzionarie per i modesti orizzonti del cinema italiano degli anni Novanta, e con una convinzione già solida e invidiabile dei propri mezzi espressivi (il bianco e nero, la struttura spezzata, l'uso espressionista di corpi deformi e scenari post-umani), con un estremismo che non guarda in faccia nessuno. La pellicola è il degno riversarsi di uno stile già ampiamento noto e apprezzato nell'epocale spazio televisivo di Cinico Tv (palestra in cui i due autori hanno forgiato il loro sguardo), stile che sopravvive in un film che non risparmia nulla delle asperità e delle controversie cui i loro spezzoni televisivi avevano già abituato gli spettatori. La Palermo di Ciprì e Maresco è uno spazio incolto, nel senso sia della terra che della cultura, e inclassificabile, in cui i corpi appaiono imprigionati dentro una prostrazione ossessiva, masturbatoria e miserabile, respingente e priva di senso, eppure aperta a residui di compassione, con «periferie urbane e degradate, ricolme di macerie e scarti industriali eppure toccate da una grazia ruvida e irriducibile» (Nicola Lagioia). Lo zio Brooklyn, nel suo insistere sul torbido e sull'inquieto, sublima i frammenti di Cinico Tv e se ne fa scudo, organizzandoli in un disegno complessivo e caotico ma al tempo stesso lucidissimo.