Cinema e carcere: i migliori film
10/03/2020
Il 10 marzo 2000 usciva nelle sale italiane Il miglio verde, di Frank Darabont, dalle pagine di Stephen King.  Il film con Tom HanksMichael Clarke Duncan Sam Rockwell è l'occasione per ripercorrere la storia delle migliori pellicole che hanno affrontato il tema della detenzione o della pena di morte, presentate in ordine rigorosamente cronologico.

Forza bruta (1947) di Jules Dassin



Forte della serrata sceneggiatura di Richard Brooks e valorizzato dalla sapiente regia di Jules Dassin, Forza bruta è uno dei più importanti prison-movie del periodo, e forse non solo. Il suo valore non sta soltanto nell'accurata confezione o nella tensione che lo attraversa dall'inizio alla fine, ma anche (e soprattutto) nella caratterizzazione di un protagonista “vittima” dei propri ricordi di libertà. I flashback contribuiscono ad aumentare l'empatia tra gli spettatori e il personaggio a cui dà volto un intenso Burt Lancaster.

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Un condannato a morte è fuggito (1956) di Robert Bresson



Impegnato per la prima volta con attori non professionisti, il regista francese realizza un caposaldo del cinema carcerario, lontano anni luce da qualsiasi convenzione hollywoodiana. Attraverso un puntuale processo di scarnificazione, Bresson riduce la vicenda all'essenziale, riportando i fatti (reali) senza alcun ornamento cinematografico, concentrandosi su gesti, oggetti e azioni del protagonista (grazie anche alla voce narrante che esprime i suoi pensieri): straordinaria nel suo essenziale rigore, è un'opera di liturgica solennità (significative, in questo senso, le note della Messa in do minore di Wolfgang Amadeus Mozart) in cui il suono (anche fuori campo) e il ritmo delle immagini hanno importanza capitale.

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Il buco (1960) di Jacques Becker



Realizzato con un cast di non professionisti, è uno degli heist movie più viscerali ed efficaci di sempre, una sublime incursione nel mondo carcerario che descrive un'evasione come fosse un rito sacrale, una sinfonia nella quale ogni gesto, rumore o dettaglio ha la sua valenza drammatica fondamentale e imprescindibile. Tutto merito di un regista in stato di grazia che dà vita a una messa in scena dall'eleganza davvero sopraffina: Becker raggiunge la statura di autentico maestro e riesce a riversare sullo spettatore una dose enorme di tensione e attesa grazie a una gestione incredibile dei pieni e dei vuoti, delle attese e delle stasi cui si alternano frangenti più dinamici e concitati.

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Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy



L'arretratezza della giustizia italiana, il degrado degli istituti di detenzione nazionali, dietro le cui mura si nascondono storie di abusi e sadismo, la lentezza e la fallacia di un sistema giudiziario arrugginito e incomprensibile: sono tutti temi toccati da una pellicola che mostra un violento cambio di prospettive per il protagonista, da nostalgico del Bel Paese a vittima di un incubo kafkiano. La regia di Nanni Loy denuncia senza paura un mondo finora lasciato ai margini, di cui tutti sanno ma di cui nessuno si interessa, e la brutalità dell'esperienza carceraria viene sottolineata da paesaggi suggestivi in stridente contrasto con la condizione dei prigionieri.

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Papillon (1973) di Franklin J. Schaffner



Tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di Henri Charrière, sceneggiato da Dalton Trumbo e Lorenzo Semple Jr. con il contributo ai dialoghi di William Goldman (non accreditato), uno dei più noti film d'ambientazione carceraria di sempre, che godette di una grande fortuna commerciale quando uscì. Confezione maestosa, grande virtuosismo dei due attori protagonisti, in quegli anni al top delle rispettive carriere (con un magnetico Steve McQueen che batte di misura l'istrionico Hoffman), e molte scene dalla grande forza epica-avventurosa

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Fuga di mezzanotte (1978) di Alan Parker



Un senso di claustrofobia e d'impotenza perfettamente restituito da un film cupo e disperato, forte di una regia che assale il protagonista fin dall'inizio nella magistrale sequenza dell'aeroporto e poi indaga il progressivo processo di alienazione, di caduta delle illusioni, di solitudine, della corruzione dei giudici e dell'impossibilità di comunicare. Perfettamente ricostruita a Malta la prigione di Istanbul, è un incubo che resta impresso nella mente dello spettatore, come i volti tetri dei carcerieri e le maschere stravolte dei prigionieri.

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Fuga da Alcatraz (1979) di Don Siegel



Non è semplicemente la cronaca dell'autentica evasione avvenuta nel 1962 (la cui conclusione resta tuttora un mistero), ma si tratta di un'opera capace di riscrivere le regole del sottogenere escape film. La pellicola di Siegel è anche, e soprattutto, un formidabile saggio sulla dignità dell'essere umano e sulla libertà come suo bisogno inalienabile, dove la prigione (e in particolare la massima e più tristemente famosa istituzione carceraria della storia americana) è metafora di ogni tipo di dimensione oppressiva.

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Le ali della libertà (1994) di Frank Darabont



Frank Darabont, al suo esordio dietro la macchina da presa, realizza un avvincente dramma carcerario, retto da una forte tensione narrativa e da interpreti eccellenti, tra i quali spicca il protagonista interpretato da un ottimo Tim Robbins. Quello che sorprende, in Le ali della libertà, non è soltanto il tema centrale dell'innocente condannato al carcere, ma la varietà di possibilità che possono portare l'uomo, distrutto dalle avversità, a risollevare la propria vita.

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Dead Man Walking - Condannato a morte (1995) di Tim Robbins



Toccante ritratto del braccio della morte e delle sue allucinanti dinamiche, tratto dall'omonimo romanzo autobiografico di suor Helen Prejan, per anni impegnata nell'assistenza spirituale ai condannati, Dead Man Walking è un perfetto esempio di opera drammatica a tinte forti che riesce a toccare le corde di profondi sentimenti senza scadere nella retorica bieca. Poncelet è un personaggio negativo, al di là della sua colpevolezza, eppure lo sguardo imparziale di Robbins lo descrive senza mai giustificarlo, riuscendo nell'impresa non facile di far empatizzare il pubblico.

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Il miglio verde (1999) di Frank Darabont



Il miglio verde coinvolge ed emoziona, accompagnando lo spettatore in un viaggio catartico all'interno del buio morale delle carceri americane degli anni Trenta, dove la vita stessa non sembra valere più nulla. Grazie a elementi simbolici dal potere evocativo e al forte contrasto vita-morte (ben rappresentato dalla commovente sequenza del cinema dove i carcerati assistono alla visione di Cappello a cilindro, del 1935, con Fred Astaire e Ginger e Rogers), il film si trasfigura in un profondo inno all'esistenza.

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Fino a prova contraria (1999) di Clint Eastwood



Va lodato comunque l'impegno del regista-attore nel rappresentare con lucidità gli errori e la fallibilità del sistema giudiziario americano, le contraddizioni del mondo carcerario, la tragica assurdità della pena di morte, resa in tutto il suo orrore. Steve Everett è l'ennesima variazione dell'(anti)eroe eastwoodiano: ex alcolizzato, seduttore impenitente, pessimo marito e padre, ma rappresentante di un giornalismo idealista e vecchio stampo che contrappone l'importanza dell'intuizione a una cronaca effimera e superficiale.

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Hunger (2008) di Steve McQueen



Hunger è un film di torture, corpi martoriati, gesti rabbiosi e sguardi sospesi nel vuoto, un inferno claustrofobico di sudore, sangue, urina ed escrementi, che tuttavia viene filmato senza compiacimento gratuito o manierismo formale. E poi c'è quel lunghissimo dialogo che spezza il silenzio di un'opera quasi muta: i venti minuti di faccia a faccia tra Sands e padre Moran (Liam Cunningham), filmati in due sole inquadrature, che riassumono il senso di una lotta decennale (o il nonsenso, ognuno è libero di decidere).

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Il profeta (2009) di Jacques Audiard



Un film che esplora un territorio frequentemente battuto dal cinema, ma lo fa con una con una sensibilità diversa e atipica, che ribalta il genere gangsteristico classico insistendo su un romanzo di formazione criminale che, al colmo del paradosso, si consuma all'interno di un'istituzione che si presumere essere rieducativa e che invece offre a Malik, interpretato da Tahar Rahim (una vera scoperta), strumenti per diventare un boss di primo livello, un efferato esecutore e un ancor più spietato spirito decisionista. 

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Cella 211 (2009) di Daniel Monzón



La cronaca della rivolta (con annessa analisi dei suoi sottotesti sociali e politici) e il racconto della deriva del malcapitato Juan Oliver e del suo rapporto, quasi edipico, con Malamadre. Ciò non toglie, però, che le basi siano ottime e che il film di Daniel Monzón, oltre a risultare un oliato meccanismo di tensione, sia una lucida riflessione sul carcere come comunità speculare alla società esterna, fondato sulle stesse regole – il senso d'appartenenza e quello d'opportunità – e sulle medesime dinamiche.

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Cesare deve morire (2012) di Paolo e Vittorio Taviani 



Prodigiosa opera dei Taviani che trova nella struttura, si direbbe quasi da reality show, una chiave di interpretazione inedita per una delle maggiori opere del Bardo. Pur utilizzando esclusivamente veri carcerati filmati dentro l'istituto, la componente di “finzione” non è mai celata ma anzi esaltata, come nell'utilizzo delle luci cinematografiche in piena vista e con l'alternanza tra bianco e nero e colore.

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