Per il progetto teatrale interno al carcere di Rebibbia, nella sezione di massima sicurezza, il regista Fabio Cavalli decide di mettere in scena il Giulio Cesare di Shakespeare con i detenuti, facendo utilizzare a ciascuno di loro il proprio dialetto. Durante casting, distribuzione delle parti, prove e messa in scena, verranno alla luce i tanti punti di contatto tra la tragedia classica e le esperienze dei carcerati.



Prodigiosa opera dei Taviani che trova nella struttura, si direbbe quasi da reality show, una chiave di interpretazione inedita per una delle maggiori opere del Bardo. Pur utilizzando esclusivamente veri carcerati filmati dentro l'istituto, la componente di “finzione” non è mai celata ma anzi esaltata, come nell'utilizzo delle luci cinematografiche in piena vista e con l'alternanza tra bianco e nero e colore. Questo straniamento, cui si aggiunge la ricostruzione della messa in scena del Giulio Cesare amplifica e riverbera la riflessione sul “ruolo” che ciascuno dei carcerati (e anche degli spettatori) è costretto a scegliere nella vita. Pressoché impeccabile dal punto di vista formale (la fotografia è di Simone Zampagni), mostra qualche limite solo quando i registi si premurano di sottolineare la “didattica” tanto del testo quanto del film. Efficaci sono anche le riflessioni degli attori sui parallelismi tra congiurati e malavitosi, oltre che sul teatro come possibile mezzo di riscatto. Orso d'oro al Festival di Berlino. Sui titoli di coda si scopre qualche sviluppo sulle vite di alcuni dei detenuti.
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