Il cinema estremo oggi
15/09/2021
Il cinema estremo oggi

Estrèmo [dal lat. extremus, superl. di exter o extĕrus «che sta fuori»]. – 1. agg. a. che è o rappresenta il termine ultimo, in senso locale o temporale, di qualche cosa – 2. agg., fig. a. con riferimento a idee e dottrine (spec. politiche), o sim., eccessivo, troppo spinto, non moderato.

Il concetto di “estremo” nell’uso quotidiano attuale si riferisce al senso figurato della definizione Treccani: rappresenta qualcosa di eccessivo, che in qualche modo scuote le coscienze a causa del superamento di un limite dettato dai costumi e dalla morale dell’epoca di riferimento. Questa linea di demarcazione è soggetta a evoluzione nel tempo (ciò che era estremo tempo fa probabilmente non lo è più oggi, e viceversa[1]) e nello spazio (la nazione o società in cui il prodotto culturale viene fruito).

In campo cinematografico l’idea occidentale di “estremo” viene più facilmente associata alla trasgressione in tre diverse situazioni: un eccesso di violenza, una spinta caratterizzazione sessuale o una compresenza di entrambi questi elementi. Nel primo caso, in particolare dall’avvento della New Hollywood, molti film contengono feroci efferatezze, ma per amor di sintesi citiamo su tutti Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1981), censurato per lungo tempo a causa della sua crudezza visiva, e l’avvento del torture porn, sottogenere dell’horror in cui tortura e violenza reiterata vengono mostrate con lunghe sequenze e dovizia di particolari, riscontrabili in film come Hostel (Eli Roth, 2005), Wolf Creek (Greg McLean, 2005), Martyrs (Pascal Laugier, 2008). In secondo luogo, più raramente l’estremo viene associato al sesso messo in scena, in quanto la censura è più rigorosa che verso la violenza, cosa che è accaduta a Nymph()maniac (Lars von Trier, 2013), uscito successivamente con la director’s cut contenente le sequenze più esplicite. Infine, è forse la compresenza dei precedenti fattori a rendere l’accezione di “estremo” più immediata, con l’intento di generare forte choc e provocazione, in pellicole come Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975), Irréversible (Gaspar Noé, 2002) e The Human Centipede (Tom Six, 2009).

[1] In quest’ultimo caso ci riferiamo a tematiche come inclusività, politically correct e questioni di gender, dove certi linguaggi e atteggiamenti, un tempo considerati accettabili, divengono oggi estremi per via di un cambiamento della sensibilità collettiva.


Estremo in che senso?

Potremmo ipotizzare che sesso e violenza siano le due componenti più “disturbanti” durante la visione di un film e che per questo lo portino ad essere estremo. Ma se si tratta solo di superare una predisposizione mentale o emotiva, un film potrebbe essere "estremo" in altri sensi?

Il cinema mainstream è da sempre legato alla concezione di genere, ma altre cinematografie e correnti si liberano da tale inquadramento: per un occidentale potrebbero apparire estreme pellicole di autori come Kim Ki-Duk, Takeshi Kitano o Shinya Tsukamoto, che narrano storie mosse da un’emotività vibrante al punto da travalicare ogni categoria di cinema; allo stesso modo la corrente postmoderna, che volutamente giustappone vari generi in un film, può rendere la visione disturbante, come fanno ad esempio i citati Lars Von Trier con Dancer in the Dark (2000), unendo melodramma e musical, e Gaspar Noé con Climax (2018) in un turbinio di balli e gore.

Se l’estremo riguarda soprattutto l’aspetto visivo, anche uno stile narrativo insolito può “superare il limite”, coinvolgendo il piano ontologico: di fronte alla cinematografia di David Lynch si è costretti a mettere in discussione ogni pre-conoscenza sul normale rapporto di causa-effetto della narrazione. Si può evincere che la visione di molti suoi film richieda in questo senso un impegno paragonabile all’assimilazione di forti dosi di violenza, creando il medesimo “fattore di disturbo”.


Persino la trattazione della tematica del film può oltrepassare ciò che si è disposti ad accettare. In due casi opposti, se da un lato l’intento parodistico e demenziale di una commedia come Scary Movie (Keenen Ivory Wayans, 2000) può apparire stucchevole o troppo volgare, descrivere l’elaborazione di un lutto o l’organizzazione di un aborto può avere una portata emotiva eccessiva per lo spettatore, come in La stanza del figlio (Nanni Moretti, 2001) e in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (Cristian Mungiu, 2007).

Nessun lieto fine quindi?

Se dunque si parla di una componente filmica che valica un limite convenzionale, può anche trattarsi di una marca positiva, la quale non necessariamente renderebbe positivo il risultato. Ad esempio, se l’originalità in un film è un pro, un’eccessiva originalità può rendere quel film "estremo"? Di solito l’eccesso non dà buoni risultati, ma qualora essa faccia breccia rompendo le convenzioni, ecco che l’estremo diventa rivoluzionario: ci riesce ad esempio Mary Poppins (Robert Stevenson, 1964) per la tecnica mista di live action e cartoni animati, e Matrix (Lana e Lilly Wachowski, 1999) per gli effetti visivi mai visti prima.


In definitiva, l’esplorazione del termine può portare a connotazioni inaspettate. Tuttavia, ciò su cui conviene soffermarsi è che in primis "cinema estremo" non è per forza sinonimo di cattivo cinema; al contrario, se contenuti forti o stili insoliti possono superare la sensibilità dello spettatore, è necessaria la loro coerenza nelle premesse e nell’intento del film stesso.

A cura di Marco Ceriotti

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