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I migliori film girati in bianco e nero negli ultimi 20 anni
Non solo Malcolm & Marie: il film con Zendaya e John David Washington è l'ultima opera girata completamente in bianco e nero, ma da inizio millennio sono diversi i registi che hanno deciso di realizzare le loro opere optando per questo stile di fotografia e regia, basti pensare a Mank, di David Fincher, il più bel film del 2020. Non solo, ci sono registi che hanno deciso di inserire solo alcune sequenze in bianco e nero nella loro opera, ma che è impossibile non citare: è il caso di Kill Bill, di Quentin Tarantino, dove sulle note del Tramonto di Ennio Morricone avviene l'incontro tra la Sposa e Bill fuori dalla chiesa.



Ecco la nostra classifica dei migliori 10 film realizzati in bianco e nero negli ultimi 20 anni:

10) One More Time with Feeling (Andrew Dominik, 2016)



Più che un making of, un percorso anti narrativo nell’inconscio di un Nick Cave dilaniato dal dolore, i cui capisaldi sono stati spazzati via dal terribile evento. Il ritratto familiare ha la medesima importanza di quello musicale e, anzi, i testi dei brani rendono ancor più crudo e straziante il ricordo (elegantemente mai descritto) di una tragedia tanto incomprensibile quanto inaccettabile, il cui non-senso può condurre solo all'accettazione. Fotografato da Benoît Debie (lo stesso di Spring Breakers del 2012) e Alwin H. Küchler in un bianco e nero ad altissimo contrasto, il film vanta una messa in scena ipnotica e in grado di rendere protagoniste le luci e le ombre dei vari contesti. 

9) Frankenweenie (Tim Burton, 2012)



A quasi trent'anni di distanza dal suo primo mediometraggio, Tim Burton decide di rifare Frankenweenie, passando dal live action alla sua amata animazione stop-motion. E riesce nell'intento di ricostruire l'atmosfera povera e rarefatta del film originale, arricchendola della magia nostalgica dei suoi pupazzetti dagli occhi sgranati. Fantascienza e horror si inseguono in un tetro e al contempo gioioso carosello in bianco e nero che beneficia, inoltre, di una nuova veste 3D. Ogni cosa è esattamente dove dovrebbe essere: ironia, sentimento, grandi trovate visive (su tutte, il geniale cimitero degli animali, come nell'originale) sono al proprio posto. 

8) Ida (Pawel Pawlikowski, 2013)



Magistrale racconto di formazione che mette a confronto educazione monastica e sentimentale, la claustrofobia dell'istituto e la libertà di una vita come le altre, il passato tragico e il possibile futuro. La ricerca della protagonista delle sue origini diventa un intelligente pretesto per scavare all'interno della storia polacca, dalla Seconda guerra mondiale al tentativo (impossibile?) di costruire una nuova identità. Coinvolgente e raffinatissimo, Ida unisce una profonda riflessione sui traumi esistenziali a una regia rigorosa e valorizzata da una fotografia in bianco e nero tanto glaciale quanto elegante. La colta colonna sonora si sposa alla perfezione con immagini altrettanto ricercate, studiate alla perfezione e impeccabili anche sui minimi dettagli. 

7) Cold War (Pawel Pawlikowski, 2018)



Cold War segue l'impossibile relazione tra due amanti "in fuga" da un conflitto, invisibile ma spietato, che li costringerà a dividersi troppe volte durante un intero decennio. Eppure, la Guerra Fredda citata dal titolo non è (sol)tanto quella Storica, quanto quella umana vissuta da personaggi più cinici e insensibili di come possono sembrare. Una metafora decisamente calzante dei tempi odierni, dove i flussi migratori e la disillusione di un mondo unito e compatto risultano spesso di ostacolo per un cammino di unione. Alcuni potrebbero definire la struttura narrativa troppo rapsodica e minimale, ma è proprio nelle profonde ellissi temporali che sta il senso principale di un film in cui le pause (contraddistinte dallo schermo nero) contano quanto le altre sequenze, sia da un versante nostalgicamente sentimentale, sia da un altro profondamente politico: nonostante la narrazione spezzettata, il film riesce a raccontare il periodo storico vissuto dall’Europa dopo la Seconda guerra mondiale con maggiore attenzione rispetto a tante altre pellicole che vogliono descriverlo in maniera più “completa”. 

6) L’altra Heimat - Cronaca di un sogno (Edgar Reitz, 2013)



Reitz affina ulteriormente la sua tecnica narrativa e cinematografica (si noti l'uso del colore, utilizzato solo per piccoli e decisivi dettagli all'interno dell'immagine in bianco e nero che domina il film) per esplorare la sehnsucht romantica, il desiderio malinconico del desiderio stesso: quel sentimento, non unicamente traducibile nella nostra lingua, che si pone a metà tra la nostalgia e la pulsione verso il futuro, ma anche, per dirla con Heidegger, come «il dolore per la vicinanza del lontano». Reitz si muove tra l'estremo particolare di Jacob – ragazzo romantico e sognatore, che legge il nuovo mondo sui libri, idealizzandolo per sfuggire a un presente di fango, sofferenza e morte – e l'estremo storico di un popolo prigioniero che anela la libertà ed emigra dal suolo natio.

5) From What Is Before (Lav Diaz, 2014)



Alla dimensione prettamente storico-cronachistica, Diaz aggiunge una profonda indagine sui rapporti umani e sulle reazioni degli stessi di fronte a un cataclisma (naturale, personale o politico che sia). Lo spessore drammaturgico procede di pari passo con lo splendore estetico di una regia sublime, valorizzata da una fotografia di ancestrale bellezza e da una serie di piani-sequenza ipnotici e ammalianti. Le scene da pelle d'oca sono innumerevoli: siano esse crude e spietate (il rapporto sessuale “subito” da Joselina, affetta da gravi handicap), malinconiche (il pre-finale con una figlia che assiste al funerale del padre, trasportato dalla corrente di un fiume) o poetiche (le figure umane diventano parte integrante dell'ambiente che le circonda).

4) Mank (David Fincher, 2020)



"Non si può raccontare la vita di un personaggio in due ore, ma solo dare l'impressione di averlo fatto" dice Mank in una delle tante citazioni metacinematografiche di un film che utilizza spesso le sue battute per parlare della lavorazione stessa di questa pellicola. La forma si fa presto contenuto, proponendo frasi tipiche di uno script che si sta delineando fin dalle primissime immagini: un film su uno sceneggiatore, ma soprattutto un film di sceneggiatura, in cui ancor più della splendida fotografia in bianco e nero (che richiama con alcuni giochi la pellicola dell’epoca) e di un sonoro che lavora in maniera coerente, sono soprattutto le parole a contare, all’interno di dialoghi fittissimi in cui la verve cinica, caustica e irresistibile del protagonista è soltanto il fiore all’occhiello. Non è un caso che la sceneggiatura sia firmata da Jack Fincher, padre del regista David, scomparso nel 2003, ben 17 anni prima dell’uscita su Netflix di questo lungometraggio.

3) Roma (Alfonso Cuarón, 2018)



Un film intimo e personale, ambientato negli anni della giovinezza del regista, privo di un cast di richiamo e girato in un bianco e nero folgorante, che sposa alla perfezione il ritmo e l'estetica di un progetto fortemente autoriale e decisamente lontano dai gusti del grande pubblico. Attraverso la parabola di Cleo (splendidamente interpretata da Yalitza Aparicio), il regista messicano costruisce una metafora cinica e severa della sua terra natia, intrecciando costantemente il dramma familiare con quello di un'intera nazione attraverso inquadrature di rara bellezza cinematografica, basate sulla profondità di campo e sull'utilizzo di piani-sequenza in grado di avvolgere totalmente lo sguardo dello spettatore per immergerlo in una realtà invadente che dalla lontananza riesce comunque sempre a farsi presente. Il Messico di Cuarón sembra destinato a un degrado di violenza e abusi dai quali sarà impossibile fuggire (come simboleggia la costante presenza di un volo di linea tanto desiderato quanto utopico da prendere) e dal quale persino le generazioni future non sembrano poter trovare giovamento.

2) Il cavallo di Torino (Béla Tarr, Ágnes Hranitzky, 2011)



L'opera ultima e definitiva di Tarr è una bolla spazio-temporale angosciante e cupissima, collocata nelle campagne ungheresi, in cui il tempo e lo spazio diventano pilastri portanti e forze da manipolare e dilatare, ricorrendo a inquadrature e a sequenze prolungate all'infinito oltre che a scenari foschi e brulli: delle terre selvagge dal fascino rupestre e contadino, che il bianco e nero (fotografia di Fred Kelemen) trasforma in delle lande sterminate e sperdute da cinema espressionista, simili a un inferno dell'anima privato di ogni forma di colore, vita, speranza. Tarr non contempla mai il suo ego di autore ma, accanto alla sua volenterosa troupe e alla moglie Ágnes Hranitzky (co-regista), dà vita a una monumentale riflessione sull'Apocalisse, lavorando sulle figure umane come manifestazioni dirette del caos primordiale, da rispettare e da raffigurare in tutto il loro dolente sovrapporsi di istinti e contraddizioni, di speranze disilluse e brutalità sopite pronte ad accendersi.

1) Hard to Be a God (Aleksej German, 2013)



Il capolavoro assoluto di Aleksej German, un'operazione titanica e irripetibile, un monumento statuario alla grandezza del cinema, alle sue possibilità liriche, alla capacità delle immagini di trasfigurare il reale e di rappresentare l'Assoluto. Un magma audiovisivo nel quale il lerciume, la sporcizia e l'abbrutimento di un'umanità imprigionata in una sorta di girone infernale vengono restituiti con devastante potenza. Ciò che fa di Hard to Be a God uno dei più grandi film del nostro tempo, un oggetto audiovisivo che fa tesoro di un passato gloriosissimo ed è destinato ad accompagnarci anche nel futuro, è proprio tale attenzione capillare e totalizzante alla natura sensoriale dell'immagine: German alterna fango e sozzume a sequenze innevate tra le più belle mai girate (l'incredibile finale, per esempio), muovendosi in una terra di mezzo a metà tra gusto pittorico (il realismo iper-dettagliato e mostruoso di Hyeronimus Bosch su tutto e tutti) e discesa agli Inferi, con una sensibilità estetica di una grandezza stordente, interessata soprattutto alla rappresentazione il più concreta e verosimile dell'essere umano, miserie e bassezze comprese.
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