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Oscar 2020 al miglior film: candidati e pronostici nella categoria principale
La 92ª edizione dei premi Oscar, in programma al Dolby Theatre di Los Angeles il prossimo 9 febbraio, è sempre più vicina e cominciano a impazzare le previsioni per i vincitori e il relativo toto Oscar. Iniziamo il nostro viaggio verso la notte delle statuette dorate soffermandoci sui candidati nella categoria principale e più ambita, quella a miglior film. 

Il film coreano Parasite ha raccolto un consenso molto ampio di critica e pubblico negli Stati Uniti e non solo e potrebbe diventare il primo film non di lingua inglese ad accappararsi l'Oscar come miglior film. La vittoria ai SAG, premio del sindacato degli attori (la fetta notoriamente più cospicua di votanti dell'Academy) in questo senso rappresentata un indicatore molto forte e spesso è coincisa con l'Oscar principale.

A insidiarlo, con ogni probabilità, potrebbe però essere il vero favorito di quest'anno, 1917 di Sam Mendes, che ha raccolto il consenso della Guild dei produttori e dei registi, vincendo PGA e DGA. Parasite riceverà sicuramente un Oscar sacrosanto e già blindato al miglior film straniero (e ha raccolto ben sei nomination, un record per un film non anglofono), ma da pronostico dovrebbe cedere lo scettro di miglior film proprio a 1917, dato per favorito anche dai boomakers. La vittoria del film di Mendes è infatti quotata a 1,36, mentre Parasite si colloca a 4,00 e C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino a 6,00. Più staccato Joker, a 10,00. Nessuna chance concreta di vittoria, invece, per tutti gli altri film candidati.

Di seguito una panoramica su tutti i candidati a miglior film degli Oscar 2020, con rimandi diretti ed estratti delle nostre relative schede. 

1917, di Sam Mendes



Mendes punta su una storia di eroismo inglese durante un grande conflitto mondiale, ragionando anche lui su un discorso legato al tempo: come ampiamente annunciato già durante la lavorazione, il film è pensato come un unico piano-sequenza che copre le intere (quasi) due ore di durata del lungometraggio. In realtà si tratta di due piani-sequenza, visto che c’è un’ellisse a nero che fa passare dal giorno alla notte, e si possono notare diverse “giunture” all’interno delle due macro-sequenze. Fatto sta, a ogni modo, che molto presto ci si rende conto che 1917 non rispetta il tempo reale che si è prefissato e che da un film sul tempo si trasforma in un film sullo spazio, in cui si muovono i personaggi. 

C'era una volta a... Hollywood (Once Upon a Time... in Hollywood), regia di Quentin Tarantino



Arrivato al nono film, Quentin Tarantino crea una vera e propria opera-mondo della sua carriera, inglobando all’interno di un solo lungometraggio tutte le tematiche, le passioni e anche le ossessioni che hanno caratterizzato il suo cinema. Non è un caso che il titolo, C’era una volta a… Hollywood, sia già di per sé uno sguardo verso il passato, ma non soltanto quello del cinema in senso ampio: si tratta infatti di uno sguardo anche nostalgico sul cinema dello stesso Tarantino, che crea un’opera personalissima, teorica e che non scende a compromessi. Certo, poi c’è anche il versante (altrettanto fondamentale) relativo al periodo storico che il cinema stava passando in un momento decisivo come quello della fine degli anni Sessanta, a partire dall’avvento della New Hollywood (il 1969 è l’anno di Easy Rider e Dennis Hopper viene anche esplicitamente citato) e di un’industria come quella hollywoodiana che doveva forzatamente cambiare per rispondere ai bisogni e agli interessi delle nuove generazioni. 

The Irishman
, regia di Martin Scorsese

Si apre con un importante movimento di macchina The Irishman, film che ha un incipit dal forte sapore simbolico: dal buio la cinepresa emerge e si muove verso i corridoi di una casa di cura, fino a raggiungere il volto dell’anziano protagonista, che inizia a raccontarci la sua storia. È come se quel momento di oscurità fosse già una rappresentazione della Morte, tematica che attraversa sotto diverse direttrici simboliche l’intera narrazione. Non sono soltanto i continui decessi oggetto della vicenda, ma è l’idea stessa alla base del film ad avere un importante riferimento in questo senso: The Irishman appare infatti come il canto funebre di Scorsese nei confronti del mafia-movie, genere che ha rappresentato una tappa importante della sua carriera, e non solo. Un estremo saluto a un tipo di cinema che non c’è più, accompagnato dai volti che hanno fatto grande proprio quel suo tipo di cinema: da De Niro a Pesci, passando anche per Harvey Keitel, che regala qualche piccola (ma non casuale) apparizione.

Jojo Rabbit
, regia di Taika Waititi

L’attore, regista e comico neozelandese Taika Waititi s’insinua nel territorio sempre rischioso e scivoloso della satira sul nazismo realizzando una fiaba per ragazzi in cui la vicenda tragica dell’Olocausto viene riletta con piglio solare e divertito, tra momenti esplicitamente parodici e ricadute drammatiche complessivamente dosate, in cui le farfalle non si limitano ad abitare nelle viscere del piccolo Jojo, innamorato di una coetanea ebrea, ma provvedono anche a fare da apripista a orrori repentini e inaspettati. Waititi, anche interprete di un Hitler che fa il pieno di scatenato macchiettismo, dimostra una discreta ispirazione nel fare i conti con la leggerezza dell’affresco storico a misura di bambino, ma il film pecca di molte ingenuità narrative e di una dose non indifferente di momenti stucchevoli e telefonati, nei quali manca il coraggio per affondare la propria vena caustica nel cuore della Storia. 

Joker
, regia di Todd Phillips

Gettati i panni da commediografo (un po' come farà il protagonista del suo film), Todd Phillips si cimenta con il cinecomic, raccontando la genesi del celebre villain della DC Comics attraverso una prospettiva autonoma che non si collega a nessun altro film di supereroi precedentemente realizzato. Lontano anni luce dalle innumerevoli trasposizioni sul grande schermo di fumetti, albi e graphic novel di ogni tipo, questo Joker non è altro che un viaggio negli abissi della psiche umana, un action per il grande pubblico che dietro la maschera (è proprio il caso di dirlo) nasconde una operazione di taglio autoriale che riesce nel non facile compito di aderire ai codici di genere trasfigurandoli attraverso una prospettiva per molti versi inedita. Attingendo a piene mani al cinema di rottura americano degli anni ’70 e, in particolare, al sentimento di disillusione alla base del cinema della New Hollywood, il film destabilizza, con inesorabile progressione drammatica, mantenendo sempre perfettamente il focus sul suo debordante protagonista, reietto senza via d’uscita, escluso da ogni forma di relazione sociale in un mondo di lupi famelici.

Le Mans '66 - La grande sfida (Ford v Ferrari), regia di James Mangold

Le Mans ’66 – La grande sfida (titolo originale Ford Vs. Ferrari), diretto da James Mangold, già regista di Logan - The Wolverine (2013), è un efficace film sportivo pienamente inserito nella florida tradizione hollywoodiana di prodotti analoghi: la messa a punto delle adrenaliniche corse automobilistiche fa il paio con un ingranaggio narrativo che riflette, in maniera evidente e senza nascondersi dietro un dito, sulle logiche del profitto dell’industria cinematografica e sull’eterno, conflittuale dualismo tra genio e sregolatezza - ben incarnati dal personaggio del solito Christian Bale, smagrito e forsennato asso del volante - e logiche industriali tutte votate al compromesso, alle facce pulite ma inerti, allo sterile conforto di uomini-immagine untuosi e rassicuranti ma incapaci del guizzo che solo il talento più incendiario e privo di compromessi può portare con sé.

Parasite (Gisaengchung)
, regia di Bong Joon-ho



Il regista sudcoreano Bong Joon-Ho, dopo la parentesi leggermente al di sotto dei suoi consueti standard rappresentata da Okja (2017), ritrova il proprio attore feticcio Song Kang-ho e torna alla potenza del suo cinema migliore. Lo fa attraverso una scatenata e pirotecnica commedia, rigorosamente al veleno per topi: un genere che consente all’autore di Madre (2009) di parlare dei nodi cruciali del presente e della crisi economica con uno sguardo a dir poco funambolico e incendiario, tanto nelle premesse del racconto quanto nei suoi folli e imprevedibili sviluppi e colpi di scena, che mescolano satira fuori controllo e irresistibile bizzarria, slanci di commedia nera e riflessioni sulle fratture tra ranghi sociali, collocate plasticamente su piani differenti e destinate a una feroce e impietosa lotta di classe. Parasite, che si pone decisamente in scia al coevo Noi (2019) di Jordan Peele per la costruzione generale e la potenza urlata della propria allegoria, nell’arco della sua raffinata e godibile messa in scena, si sofferma a più riprese sugli Stati Uniti come veicolo di falsificazione e menzogna. Allo stesso modo vengono citati i rapporti tragici e timorosi con la Corea del Nord, con la quale la distensione non è mai davvero andata in porto, all’interno di una panoramica profondamente politica e di stringente attualità.

Piccole donne (Little Women), regia di Greta Gerwig

L’attrice Greta Gerwig, dopo aver ricevuto un’ottima accoglienza col precedente Lady Bird (2017), firma un adattamento del noto romanzo di Louisa May Alcott, pubblicato in due parti tra il 1868 e il 1869 e annoverabile a pieno titolo tra i grandi classici della letteratura americana. L’approccio della Gerwig mantiene intatto lo spirito del testo portandolo sul grande schermo con una buona dose di fedeltà e non discostandosi troppo dall’impianto narrativo delle molteplici trasposizioni cinematografiche che si sono succedute negli anni, da quella del 1933 di George Cukor con Katharine Hepburn al film del 1994 con Wynona Ryder, Susan Sarandon e Kirsten Dunst passando per la versione forse più celebre, datata 1949 e con Elizabeth Taylor. L’ex attrice di riferimento del mumblecore e del cinema indipendente americano, anche sceneggiatrice, provvede però ad appropriarsi di Piccole donne con un piglio all’insegna di un’aggraziata e contagiosa modernità, forte di non poche spolverate di contemporaneità che vanno a irrorare il testo e a illuminarlo, seppur con una certa furbizia, di una luce al contempo vecchia e nuova, antica ma non per questo non attuale.

Storia di un matrimonio (Marriage Story)
, regia di Noah Baumbach

A due anni di distanza da The Meyerowitz Stories (2017), Noah Baumbach torna a scrivere e dirigere una storia intima e fortemente emotiva firmando uno dei lavori più compiuti e incisivi della sua carriera. Da sempre attratto dal concetto di famiglia, l'autore statunitense riesce a dar vita a un affresco sincero e potentissimo, in grado di far vibrare le corde degli spettatori in più di un momento. Marriage Story si apre e si chiude all'insegna dell'amore di coppia e del carico di silenziose emozioni che una simile esperienza può regalare. In mezzo, invece, sono le parole (soprattutto quelle degli avvocati) a farla da padrone e ad allontanare sempre più i cuori dei due protagonisti. Baumbach adegua lo stile della sua regia alle pieghe narrative del racconto, privilegiando i primi piani nei momenti più caldi, per poi via via lasciare sempre più spazio ai corpi quando le strade iniziano a divergere. A tal proposito, di grande interesse è anche il taglio che il regista offre dell’America (simboleggiata dagli opposti di New York e Los Angeles) costantemente sotto pressione e in continua rivalità, che potrebbe (ri)trovare se stessa solamente ascoltando il mondo degli affetti anziché quello del denaro. 
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