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I 5 migliori film diretti da Quentin Tarantino

Regista chiave della postmodernità, Quentin Tarantino ha cambiato la storia del cinema degli ultimi vent’anni rimescolandone i codici e diventando, come ben testimonia l’aggettivo tarantiniano, un vero e proprio marchio, dal quale è scaturito un culto ancor più indistruttibile, dall’influenza incalcolabile.

Per celebrare l'uscita in sala del suo ultimo, attesissimo film, C'era una volta a... Hollywood, ecco la nostra classifica dei suoi cinque migliori film! 

5) Le iene (1992)

Esordio esplosivo del ventinovenne Quentin Tarantino che, con un budget limitato e un impianto di chiara matrice teatrale (netta prevalenza degli interni sugli esterni, maggiore spazio al dialogo rispetto all’azione), getta le basi delle sue opere future e, per estensione, di quel cinema post-moderno di cui è uno dei massimi esponenti. Spettacolarizzazione di una violenza a tratti insostenibile (le torture), cinefilia maniacale (con uno sguardo revisionista al noir classico), dialoghi spumeggianti al limite del surreale (l’incipit alla tavola calda), narrazione non lineare, struttura a incastro. Le iene rappresenta un modello di riferimento per coerenza tematica e stilistica che vanta numerosi tentativi di imitazione, un mirabile esempio di cinema capace di mescolare suggestioni, citazioni e rimandi in maniera funzionale creando qualcosa di originale e insolito, spiazzante ed entusiasmante, senza adagiarsi sugli allori di un facile manierismo.


4) The Hateful Eight (2015)

Con il suo ottavo film, Quentin Tarantino prosegue il proprio personale percorso di rilettura della Storia dopo Bastardi senza gloria (2009) e Django Unchained (2012). Questa volta il regista e sceneggiatore ambienta la vicenda a distanza di pochi anni dalla conclusione della Guerra Civile americana per porre l’accento sulle contraddizioni insolute di una Nazione pervasa da una latente e feroce paranoia collettiva, da un’innata predisposizione alla violenza e alla prevaricazione in nome del tornaconto personale e da un razzismo bieco e volgare che accomuna le molteplici categorie umane coinvolte (nordisti e sudisti, afroamericani e messicani, uomini e donne). L’ambientazione quasi esclusivamente in interni (all’apparenza più confortevoli dei minacciosi esterni dagli spazi sconfinati e flagellati da una tempesta di neve) e la spiccata dimensione teatrale del racconto (con chiari rimandi alla pièce Trappola per topi di Agatha Christie) favoriscono una tensione di carattere psicologico attraverso cui si svelano gradualmente i vari contrasti tra i personaggi destinati a esplodere in tutta la loro deflagrante e annichilente brutalità in un gioco al massacro gestito con un impeccabile senso del ritmo e sorretto da una encomiabile capacità narrativa, in grado di mantenere sempre alti l’attenzione e il coinvolgimento emotivo.


3) Bastardi senza gloria (2009)

Prendendo spunto dal titolo inglese (The Inglorious Bastards) di Quel maledetto treno blindato (1978) di Enzo G. Castellari, e frullando insieme Sergio Leone, Ernst Lubitsch e Quella sporca dozzina (1967) di Robert Aldrich, Quentin Tarantino si sposta nel passato, dando vita a uno spassosissimo racconto fantastorico dove il cinema si prende la sua rivincita sulle tragedie della Storia. Ambizioso e coraggiosissimo, il film brilla per lo splendido inizio (la tensione raggiunta ricorda quella dei migliori duelli western) e per la memorabile parte conclusiva ambientata nella sala gestita da Shosanna, ma anche al centro non mancano i momenti degni di nota (la partita nella taverna, in primis). Un esempio di ottimo cinema che, pur con qualche autocompiacimento di troppo (vedi la battuta finale pronunciata da Brad Pitt, che sembra una vanitosa dichiarazione dello stesso regista), colpisce per maturità drammaturgica e riflessioni messe in campo.

 

2) Pulp Fiction (1994)

Opera spartiacque degli anni ’90 nonché esemplare connubio tra post-modernismo e cinema mainstream. La narrazione frammentata e a incastro, la violenza più efferata resa cool, l’umorismo nero e ammiccante, il citazionismo cinefilo elevato ad arte, l’unione di alto e basso (la “pulp fiction” è letteratura di scarso valore, tutta incentrata su storie poliziesche di sesso e sangue) e il gusto per la digressione: queste sono le carte vincenti di un film che ha fatto epoca e ispirato molteplici imitazioni. Nel delirio audiovisivo concepito da Quentin Tarantino tutto torna magicamente, in un progetto onnivoro che inghiottisce i generi (dal noir alla commedia sofisticata, dal western metropolitano al grottesco, dai cartoni animati al trash) per restituirne uno nuovo. Straordinario esempio di cinema libero, alieno alle convenzioni, deciso a scardinare regole codificate (narrative e estetiche) con freschezza e sagacia davvero sorprendenti, senza mai troppo prendersi sul serio, risultando così spontaneo, energico, divertente ed entusiasmante.


1) Kill Bill Vol. 1 & 2 (2003, 2004)

A sei anni di distanza da Jackie Brown (1997), Quentin Tarantino torna alla ribalta con il primo capitolo di un dittico formidabile, che appaga i fan, delizia la critica e si guadagna un posto di rilievo nel panorama cinematografico (post)moderno. Rielaborando i Kung-fu movie degli anni ’70 attraverso una ricchezza plastico-figurativa all’insegna dell’eccesso (dove reminiscenze di cinema del passato, contemporaneità, cinema orientale e cinema americano si fondono in un esaltante progetto totalizzante), Tarantino eleva l’appassionato citazionismo e la commistione di genere a stato dell’arte. Le ossessioni del regista (l’amore per il cinema orientale, la stilizzazione della violenza, la sostanziale inutilità della vendetta come spinta ineludibile e forza logorante) vengono declinate con una libertà formale che spiazza ma sa essere coerente con un percorso di rilettura personale e originalissima di generi e codici espressivi.

Quentin Tarantino completa il suo dittico con una pellicola che si impone come la quintessenza di un’idea di cinema autocelebrativa ma, al tempo stesso, profondamente innovativa. Omaggiando esplicitamente lo spaghetti western e l’epopea mitica di Sergio Leone, Tarantino dosa sapientemente ritmo sincopato e lunghe sequenze contemplative, per sfociare nell’epica classica con il memorabile confronto finale dal sapore crepuscolare. Si tratta di un’opera squisitamente cinéphile, che ha la fertilità di un classico (post)moderno e l’arguta intelligenza di un divertissement d’autore, meno frenetica del capitolo precedente, di cui è un perfetto complemento artistico. Tarantino ha dichiarato di aver pensato ai due volumi come a un’unica opera, ma è evidente lo scarto tra prima e seconda parte: in questo caso le strizzate d’occhio sono meno evidenti e più sofisticate, mentre l’omaggio alla cultura e al cinema orientale (che comunque fanno capolino nella lunga parentesi dell’addestramento in Cina) cede il passo a generi tipicamente occidentali come il melò e lo stesso western.

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