Happiness of Us Alone
Na mo naku mazushiku utsukushiku
Durata
130
Formato
Regista
Una giovane vedova (Hideko Takamine) viene invitata dalla sua scuola per persone sorde per una rimpatriata. Qui conosce Michio (Keiju Kobayashi) e i due si sposano. Tra difficoltà e momenti felici, la loro vita familiare cerca stabilità dopo la guerra.
Tra i primi film giapponesi a parlare di disabilità e, in generale, tra i migliori film del periodo a trattare l’argomento con realismo e senza scadere in operazioni pietistiche. In cabina di regia c’è l’esordiente ZenzĹ Matsuyama, ma si dimostra già ben capace di dirigere la macchina da presa: in questo senso, memorabile la scena del dialogo conoscitivo tra i due protagonisti, che parlano usando la lingua dei segni in una rumorosissima stazione. Se si fosse usata la voce, i due non avrebbero mai potuto comprendersi, invece il rumore non è per nulla un ostacolo e i due continuano a parlare anche quando un treno sfreccia a pochi passi da loro, togliendoli alla vista. È del resto proprio un film che parla di capacità di adattamento, e che non racconta le persone disabili con retoriche posticce, ma che le rappresenta nella loro umana complessità. Con lo stesso realismo viene raccontato il Giappone che sta sullo sfondo: i bombardamenti aerei, i discorsi radiofonici dell’imperatore, il trattamento contro il tifo, la presenza militare statunitense… Sono tanti i dettagli che incorniciano gli eventi che vengono mostrati dentro un contesto storico sfidante e spietato. E poi c’è la vita familiare, fatta di grandi dolori e grandi felicità, incomprensioni e imbarazzi, che si sviluppa per più di un decennio “silenziosamente, poveramente e splendidamente” (per parafrasare alla bell’e meglio il titolo originale). Il regista pare rifarsi alla filosofia del “wabi-sabi” ovvero la capacità di trovare bellezza nell’imperfezione, nell’umiltà e nella transitorietà. E infatti, neanche un pre-finale tragico riesce a spezzare il sorriso e la speranza nel futuro. Ad essere ancora più solida della regia è la scrittura, e del resto non sorprende: Matsuyama era già stato sceneggiatore di quell’opera colossale che è La condizione umana di Kobayashi. Anche gli interpreti fanno un ottimo lavoro, e una nota di particolare merito va data a Hideko Takamine (qui diretta dal marito), sempre credibile e composta, capace di commuovere ma anche di illuminare l’intera scena con un semplice sorriso.
Tra i primi film giapponesi a parlare di disabilità e, in generale, tra i migliori film del periodo a trattare l’argomento con realismo e senza scadere in operazioni pietistiche. In cabina di regia c’è l’esordiente ZenzĹ Matsuyama, ma si dimostra già ben capace di dirigere la macchina da presa: in questo senso, memorabile la scena del dialogo conoscitivo tra i due protagonisti, che parlano usando la lingua dei segni in una rumorosissima stazione. Se si fosse usata la voce, i due non avrebbero mai potuto comprendersi, invece il rumore non è per nulla un ostacolo e i due continuano a parlare anche quando un treno sfreccia a pochi passi da loro, togliendoli alla vista. È del resto proprio un film che parla di capacità di adattamento, e che non racconta le persone disabili con retoriche posticce, ma che le rappresenta nella loro umana complessità. Con lo stesso realismo viene raccontato il Giappone che sta sullo sfondo: i bombardamenti aerei, i discorsi radiofonici dell’imperatore, il trattamento contro il tifo, la presenza militare statunitense… Sono tanti i dettagli che incorniciano gli eventi che vengono mostrati dentro un contesto storico sfidante e spietato. E poi c’è la vita familiare, fatta di grandi dolori e grandi felicità, incomprensioni e imbarazzi, che si sviluppa per più di un decennio “silenziosamente, poveramente e splendidamente” (per parafrasare alla bell’e meglio il titolo originale). Il regista pare rifarsi alla filosofia del “wabi-sabi” ovvero la capacità di trovare bellezza nell’imperfezione, nell’umiltà e nella transitorietà. E infatti, neanche un pre-finale tragico riesce a spezzare il sorriso e la speranza nel futuro. Ad essere ancora più solida della regia è la scrittura, e del resto non sorprende: Matsuyama era già stato sceneggiatore di quell’opera colossale che è La condizione umana di Kobayashi. Anche gli interpreti fanno un ottimo lavoro, e una nota di particolare merito va data a Hideko Takamine (qui diretta dal marito), sempre credibile e composta, capace di commuovere ma anche di illuminare l’intera scena con un semplice sorriso.