In una Roma contemporanea, un borghese dialoga con un banchiere, un umile soldato, un senatore e uno scrittore. Questi sono tutti vissuti all’epoca di Cesare, e daranno al giovane una prospettiva sulla vera forma dell’Impero. 

Inizia con un lungo e ipnotico piano sequenza dall’interno di un’auto (anticipando di decenni tappe importanti del cinema sperimentale, da Kiarostami a Eastel). Simili longtake intervallano tutto il film, facendo fluire davanti allo spettatore una Roma vivissima e autentica. Huillet e Straub raramente hanno mostrato una macchina da presa così mobile, e pur non mancando le solite intense inquadrature fisse, anche in questo senso ci sono più stacchi, più prospettive. E del resto, i personaggi messi in scena sono più ambigui e sfuggenti rispetto ai grandi protagonisti classici di tanto loro cinema. Per la prima volta in carriera, infatti, la coppia cita apertamente il loro massimo nume tutelare, Brecht, adattando il suo romanzo incompiuto Gli affari del signor Giulio Cesare. I dialoghi sono pragmatici, lontano dell’epica storica: l’impero viene descritto come un giro d’affari poco puliti e in balia delle velleità dei potenti. Per Straub, il film è pensato come la storia di una collera che cresce sempre più man mano che la corruzione e la decadenza imperiale vengono messe a nudo. Rabbia che si rispecchia nell’impotenza del presente, mandando un attuale messaggio di denuncia politica sottile ma profondo, com’è tipico del cinema della coppia. Qui più che altrove, poi, il loro discreto umorismo è ampiamente valorizzato, tra antichi romani seduti sulle sdraio e quella lunga inquadratura finale, in cui un mix di sentimenti dalla disillusione allo sgomento vengono cristallizzati nel volto di pietra di una fontana. Niente di troppo nuovo per chi ha visto i titoli precedenti due registi, forse, ma resta un prodotto riuscito e molto interessante. 




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