Le vicende di un dodicenne (Daniel Blanchard), alle prese con un quotidiano di solitudine e ordinario degrado in un paesino sperduto del Texas, un luogo spersonalizzato e simile a tante altre realtà analogamente abbandonate a se stesse.

L'opera seconda di Roberto Minervini non si discosta dall'elaborazione stilistico-formale portata a termine dal regista nel suo primo film, The Passage (2011), del quali alcuni dei personaggi ritornano pure qui: anche in questo caso il regista dirige, con uno stile ora fluido ora piano, una vicenda dai forti connotati realistici e veristici in cui l'afflato documentaristico è temperato da una tendenza alla ricostruzione e ai procedimenti tipici del cinema di finzione. I pregi ma anche le debolezze del cinema di Minervini restano immutati, faticando a convincere e ad avvincere ma anche a guardare realmente in profondità, oltre la superficie delle cose, degli eventi, di un romanzo di formazione sofferto come tanti altri prima di lui ma incapace di produrre uno scarto, tra madri festaiole, alcolizzate, assenti e dedite agli eccessi e un paesaggio che stritola più che accogliere. La macchina da presa di Minervini pedina il suo giovane protagonista, adolescente senza pace e senza nome, si affida alle maestranze tecniche e alla stessa scabra vocazione del cinema dei fratelli Dardenne ma ne riproduce solo l'estetica, di certo non l'urgenza e l'impellenza formale.
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